venerdì 28 dicembre 2018

Ars Medica

Arte medica (Articolo a firma Francesco Giubbolini e Giovanni Carlesi, pubblicato su "Toscana Medica")

Vorremmo proporre alcune rifles­sioni scaturite dalla nostra stessa attività professionale.
Come si sa, la professione del medico è sottoposta a determinanti storiche che non ri­guardano solo lo sviluppo delle tec­nologie introdotte nella medicina o la sua continua evoluzione, ma ineri­scono a tutte quelle pressioni che il contesto sociale o le caratteristiche della collettività di quel periodo im­primono.

La professione del medico nella sua specifica funzione e nella sua identità è cambiata rispetto ad epoche passate ma anche rispetto a pochi decenni fa.
Lo sviluppo della tecnologia ha introdotto stili di dia­gnosi e protocolli di interventi diver­sificati e sofisticati.
La super-specia­lizzazione ha settorializzato i campi di intervento rendendo impensabile una figura di medico aggiornata su discipline che non riguardino diretta­mente la sua specialità.
L'enorme evoluzione della scienza e la rapidità di diffusione delle nuove scoperte dai vari punti di ricerca ha reso limitate nel tempo e continuamente supera­bili persino le stesse acquisizioni che lo specialista può detenere in un da­to momento.
L'applicazione delle scienze informatiche ha modificato non solo gli assetti di diagnosi ma ha disciplinato e regolamentato in ma­niera nuova l'accesso alle strutture sanitarie e la modalità di fruizione dei servizi resi.



Rispetto a quanto detto, nella prassi medica quella par­te di sapere che pur fondata su meto­dologie acquisite agiva anche in ma­niera empirica utilizzando l'esperien­za e l'intuito ha ceduto il campo ad una condizione che è tipica della scienza moderna, cioè ad un metodo che possiede regole oggettive priori­tarie: l'esperienza elaborata dalla scienza moderna si rende verificabile ma acquista il diritto di rivendicarsi come unica via certa nella quale tro­vare la legittimazione di ogni espe­rienza.

In altre parole, a causa della sua stessa metodologia, possiede un valo­re esperienziale 'garantito' che per principio non dipende dalla modalità con cui la si agisce: nulla di quanto può divenire oggetto di esperienza si può sottrarre alla scienza. Quanto nell'esperienza si delinei come inaspettato o inspiegabile non è altro che un altro campo della ricerca. Il progresso di quest'ultima infatti con­siste in una incessante capacità di autocorreggersi.


Purtroppo, quando si tratta di applicare la conoscenza della scienza moderna alla salute, il problema si fa più difficile perché non si può curare solo da un punto di vista 'scientifico': difatti se curare è cardine della prassi medica dobbia­mo tenere presente che la prassi si caratterizza proprio per la scelta e la decisione tra diverse possibilità e nella prassi sempre si finisce con l'entrare in relazione interpersonale, anche in quei contesti che sembrano apparentemente lontani. Pensiamo agli anonimi iter diagnostici odierni: ne deriva che l'impiego di un sapere scientifico per rapportarsi all'uomo ed alla sua salute non può affidarsi ad un fondamento scientifico unita­rio; ma oggi il medico che pur volesse mantenere una autonoma capacità di giudizio ed un proprio intuito ba­sato (perché no) sulla sua personale creatività si scontrerebbe con un as­setto già precodificato. Quel medico, dicevamo, sarebbe in­globato in un grande complesso aziendale il quale possiede un'organizzazione altamen­te specializzata sin nei dettagli. In un contesto come questo a quel me­dico vengono incoraggiate e coltivate le capacità di adattamento e di inse­rimento ma del tutto scoraggiate o nei casi peggiori impedite l'autono­mia nella formulazione dei giudizi ed un agire basato sulla personale capa­cità di valutazione.



Già nella definizione di professio­ne medica si oscilla o si oscillava fra i termini scienza ed arte che si risolve o si risolveva in una sorta di rappor­to conflittuale. Ben sappiamo che il compito particolare dell'arte medica consiste nel ripristinare una condi­zione naturale, la salute, trovando così una differenziazione con le arti che producono qualcosa di artificiale.



Ogni diagnosi, per esempio, consiste nell'includere, un caso specifico nella generalità della malattia, ma la vera arte sta nel riconoscere le differenze: per ottenere questo è certamente ne­cessario il sapere medico derivato dal metodo scientifico, ma tutto ciò non basta. II fine, la salute, va ben al di là di quello che possiamo chiamare un fatto oggettivo, determinabile attraverso le scienze naturali, la salute è anche un dato psicologico e morale ma non vogliamo certo fare un enne­simo e tautologico richiamo al tanto discusso tema del rapporto medico­paziente.



La prospettiva che ci inte­ressa è un'altra ed è la prospettiva che guarda al medico per il ruolo che ricopre oggi, per l'identità nella quale è a lui consentito di conoscersi. Se­condo noi parte di tale identità do­vrebbe riconoscersi in quella capa­cità libera alla quale accennavano prima e parte del ruolo e della prassi medica dovrebbe costituirsi attraver­so il bagaglio dell'esperienza e nell'esercizio dell"arte'. Attraverso l'esperienza il medico domina la sua arte e la sua abilità, tanto maggiore è la libertà che possiede nei confronti di questa stessa capacità. Solo la li­bertà nei confronti del proprio saper fare lascia spazio a quei punti di vi­sta che riguardano la prassi e che su­perano la semplice competenza dell'abilità.



Ma oggi, evidentemente, questo compito si fa arduo. La speci­ficità della scienza moderna risiede nel fatto che essa intende il suo stes­so sapere come capacità di produrre, e nel campo della medicina la capa­cità di produrre si rende autonoma e permette di controllare il decorso del­la malattia attraverso l'applicazione di un sapere teoretico. Tuttavia pro­prio in quanto tale questa produzio­ne non consiste nel guarire, bensì nell'ottenere uno specifico risultato, un fare.


Ecco perché, talvolta, abbia­mo l'impressione che nel complesso apparato di cura si faccia più per le regole che le sono intrinseche che per l'interesse specifico del malato, la guarigione della sua malattia. Quello che conta è appunto che tali regole vengano rispettate e tutto il codice metodologico applicato. Tanto da avere, appunto, la sensazione che nei significati di base conti di più l'appa­rato, l'istituzione, che il risultato di ristabilire l'equilibrio di salute del malato per il quale quell'apparato e quell'istituzione hanno la loro ragion d'essere.


In questo senso può scomparire l'importanza dell'individuo che, anonimo malato, viene inserito negli ingranaggi di una istituzione alienata dai suoi stessi scopi. La scienza moderna con il suo ideale di oggettività provoca un'estraniamen­to (un'alienazione) nel paziente, ma­lato alienato, ma anche nel medico, curante alienato. L'identità. del medi­co potrebbe allora esprimersi in una sintesi delicata tra scienza e tecnolo­gia, tra esperienza sapiente ed iden­tità personale tutta tesa in un diffici­lissimo compito di armonizzare parti tanto diverse. È ovvio che in questo compito ricompare la soggettività del medico che riflettendo sulla propria può riconsiderare anche quella del malato.

La scienza medica deri­va invece la sua ontologia, come sappiamo, dalla sezione del cadavere e dallo sguardo anatomico che ha sezionato il corpo prende le sue mosse. Il corpo, privato di quei valori simbolici che lo caratterizzavano prima, diventa og­getto di osservazione, e esperire la disgregazione della morte (dissezione del cadavere) identifica il corpo come organismo biologico simulacro fatto di pezzi e di funzioni. Il cadavere sezionato e svuotato diventa un model­lo di simulazione del corpo. È come se il corpo vivo fosse una modalità particolare della morte. Ma il corpo è un vissuto, non solo un insieme di organi funzionanti, e si esprime nel modo con cui di volta in volta si apre al mondo e ne fa la sua presa. La vita non è la semplice animazione della materia, e il corpo è incompatibile con lo statuto di oggetto. Il corpo come vita è in un con­tinuo rapporto esplorativo con il mondo, è un apertura al mondo; la scienza, assolutizzando l'oggettività, recide il legame originario del corpo con il mondo anche se in quel legame è racchiuso il significato della vita.



La scienza dunque elabora delle astrazioni esatte, secondo le sue stesse regole, e il mondo e il corpo finiscono per di­ventare oggettivi e astratti come se il mondo percettivo ed intuitivo del cor­po fossero prescindibili. La malattia e la morte sono così l'assurdo della ragione perché non si piegano alle leggi oggettive della scienza; in partico­lare la malattia, intermediaria fra la vita e la morte è divenuta oggetto specifico del sapere. Lo sguardo medico può allora incontrare la malattia, non il malato, e nel corpo leggere una pato­logia: mai una biografia. Espropriato della sua malattia il corpo viene ignorato o letto come organismo. Di­strutto il senso della malattia, l'occhio clinico, muto e gestuale, scorge segni e non simboli e ò'essere viene dimenticato nel fondo dell'organi­smo. Ma lo sguardo medico oltre che osservare dovrebbe ascoltare e parlare, evitando di passare di corpo in corpo dissolvendoli tutti nel diafano quadro delle loro combinazioni morbose. Esaminati, interrogati dunque solo nel loro spessore organico i corpi diventano muti circa il senso della loro malattia.
In tal senso è un dialogo solo apparente, perché non ci so­no due soggetti ma solo il monologo della scienza con se stessa.




francesco giubbolini (siena) e giovanni carlesi (firenze), Arte medica ed alienazione dei suoi significati (l'alienazione del medico), articolo pubblicato su Toscana Medica

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