domenica 30 settembre 2018

Gli attacchi di panico secondo Carofiglio


" ... Fino ad una mattina di giugno.
Ero in ascensore, di ritorno dal tribunale e salivo al mio studio, all'ottavo piano quando, d'improvviso e senza una ragione, fui assalito dal panico.
Uscito dall'ascensore, rimasi sul pianerottolo per un tempo indefinito, col respiro affannoso, sudori freddi, nausea, lo sguardo fisso su un estintore. E una paura terribile.
"Sta bene avvocato?". Il tono del signor Strisciuglio, impiegato delle finanze in pensione, inquilino dell'altro appartamento al piano, era un po' perplesso, un po' preoccupato.
"Sto bene, grazie. Sono completamente fuori di testa, ma non credo che questo sia un problema. E lei come sta?".
Non è vero. Dissi che avevo avuto un leggero capogiro ma che adesso era tutto a posto, grazie, buongiorno.
Naturalmente non era tutto a posto, come avrei capito fin troppo bene nei giorni e nei mesi successivi.
Prima di tutto non sapendo cosa mi fosse capitato, quella mattina in ascensore, cominciai ad essere ossessionato dall'idea che potesse succedere di nuovo.
Così smisi di prendere l'ascensore. Fu una scelta stupida, che contribuì ad aggravare le cose.
Dopo qualche giorno, invece di stare meglio cominciai a temere che il panico potesse assalirmi dappertutto e in qualsiasi momento.
Quando mi fui preoccupato abbastanza riuscii a farmi venire un nuovo attacco, per strada questa volta. Fu meno violento del primo ma gli effetti, nei giorni successivi, furono ancora più devastanti.
Per almeno un mese vissi nel terrore costante di essere colpito di nuovo dal panico. È buffo, a ripensarci adesso. Vivevo nella paura di essere assalito dalla paura.
Pensavo che quando mi fosse ricapitato, sarei potuto impazzire ed eventualmente anche morire. Morire pazzo.

...

Lo psichiatra era alto, massiccio, imponente, con la barba e mani come badili. Me lo immaginai mentre immobilizzava a ceffoni un pazzo scatenato e gli metteva la camicia di forza.
Fu abbastanza gentile, considerate la barba e la mole. Mi fece raccontare tutto e faceva sì con la testa. Questo mi parve rassicurante. Poi pensai che anch'io facevo sì con la testa, quando i clienti parlavano e mi sentii meno rassicurato.
Comunque disse che soffrivo di una forma particolare di disturbo dell'adattamento. La separazione aveva funzionato nella mia psiche come una bomba ad orologeria e a un certo punto aveva prodotto un effetto di rottura.
Anzi una serie di rotture a catena. Avevo fatto male a trascurare il problema per tanti mesi. C'era stata una degenerazione del disturbo di adattamento, che rischiava di trasformarsi in una depressione di media severità. Queste situazioni non andavano sottovalutate. Non dovevo preoccuparmi però perché il fatto di essere andato dallo psichiatra costituiva un segno positivo di autoconsapevolezza e una premessa per guarire. Certo era necessario un trattamento farmacologico, ma insomma nel giro di qualche mese la situazione sarebbe migliorata decisamente.
Pausa e sguardo intenso. Doveva far parte della terapia.
Poi si mise a scrivere, riempiendo una pagina di ricettario con nomi di ansiolitici e antidepressivi.
Dovevo prendere quella roba per due mesi. Dovevo cercare di distrarmi. Dovevo evitare di rimuginare su me stesso. Dovevo cercare di cogliere gli aspetti positivi delle cose evitando di pensare che la mia situazione fosse senza sbocco. Dovevo dargli trecentomila, di ricevuta non parliamone e ci vediamo di qui a due mesi per il controllo.
Salutandomi, sulla porta, mi sconsigliò di leggere i foglietti illustrativi dei farmaci. Era un vero conoscitore della psiche umana.
Cercai una farmacia lontana dal centro, per non fare incontri. Volevo evitare che davanti a qualche mio cliente, o a qualche mio collega il farmacista gridasse al commesso nel retro frasi del tipo: "controlla nell'armadio degli psicofarmaci se abbiamo il valium psichiatrico extraforte per questo signore".
Dopo aver girato un po' in macchina scelsi una farmacia del rione Japigia, ai confini della città. La farmacista era una ragazza ossuta, dall'aria poco socievole e le diedi la ricetta senza guardarla in faccia. Mi sentivo a mio agio come un seminarista in un porno shop.
La farmacista ossuta stava già facendo il conto quando recitai la parte che avevo preparato: "Giacché ci sono prendo anche una cosa per me. Ha della vitamina C effervescente?".
Mi guardò un secondo, senza dire niente. Conosceva il copione. Poi mi diede la vitamina C, assieme a tutto il resto. Pagai e scappai come un ladro.
Arrivato a casa, scartai, aprii le scatole e lessi i foglietti illustrativi dei medicinali. Erano tutti interessanti, ma la mia attenzione fu attratta in modo ipnotico dagli effetti collaterali dell'antidepressivo: il Trittico a base di trazodone.
Si cominciava da semplici vertigini per passare rapidamente a secchezza delle fauci, visione confusa, stipsi, ritenzione urinaria, tremori e alterazione della libido.
Pensai che per l'alterazione della libido avevo provveduto da solo e seguitai a leggere. Così scoprii che un numero ridotto di uomini che assumono trazodone sviluppa erezioni prolungate e dolorose, cioè il cosiddetto priapismo.
Questo problema poteva anche richiedere un intervento chirurgico di emergenza, il quale a sua volta poteva determinare una menomazione sessuale permanente.
Il finale però era rassicurante: il rischio di overdose mortali per assunzione di trazodone era fortunatamente più basso rispetto a quello connesso all'assunzione di antidepressivi triciclici.
Finito di leggere, presi a meditare.
Che si fa nel caso di una erezione prolungata e dolorosa? Si va in ospedale tenendoselo in mano? Si mettono delle mutande molto comode? Cosa si dice al dottore? Qual è la menomazione sessuale permanente?
E ancora: cosa ci vuole per una overdose mortale di trazodone? Bastano due pillole? Bisogna farsi l'intera scatola?
Non trovai risposte a quelle domande ma il Trittico finì nel cesso insieme a tutti gli altri medicinali che mi aveva prescritto il mio psichiatra. Il mio ex psichiatra.
Svuotai coscienziosamente tutte le confezioni e tirai la catena. Poi buttai nella spazzatura le scatole, i flaconi, le fiale e i foglietti illustrativi...


Testimone inconsapevole

Carofiglio Gianrico
2004, 316 p., brossura, 10 ed. 


Editore Sellerio Editore Palermo  (collana La memoria)


francesco giubbolini psichiatra e psicoterapeuta siena- Leggi anche nel sito la pagina sul Disturbo da Attacchi di Panico

sabato 29 settembre 2018

Il difficile mestiere di uomo

Uno dei nodi fondamentali relativi alla 
problematica della psicosi è rappresentato 
dalla difficoltà degli psicotici a porsi come 
soggetti attivi della propria storia.

Nel libro " Il mestiere di uomo" di Giuseppe Maffei vengono esposti i tentativi di 
comprensione di questo problema compiuti 
all'interno della psicoanalisi e della psi
cologia analitica e sono successivamente 
proposte delle ipotesi personali.


L'impossibilità di porsi nella posizione di soggetti 
è riferita da un lato a particolari difficoltà 
relazionali nella primissima infanzia e dal
l'altro e nello stesso tempo a difficoltà 
nella costituzione della rimozione primaria. 
Questa problematica impedirebbe al fu
turo psicotico di vivere in una situazio
ne esistenziale di potenza effettiva e lo 
costringerebbe invece in una situazione 
descritta come di onnipotenza-impotenza: 
egli vivrebbe la sua vita come spettatore, 
partecipe dei flussi inconsci più profondi, 
ma senza decidersi ad apprendere ciò che 
a lui appare come un mestiere, il mestiere di uomo. 



Una complessa problematica esiste anche 
a livello del rapporto psicoterapeutico.


Su quali basi teoriche può essere impostata una terapia psicologica?
Quali fini 
è legittimo porsi e quali risultati è possibile attendere?
L'apertura di una comu
nicazione profonda è capace di condurre 
questi uomini alla posizione di soggetti?



Le risposte a queste domande non sono 
né semplici né univoche.


Si sostiene comunque che il rapporto col terapeuta, pur 
nelle sue traversie tanto complesse e nella continua esposizione agli attacchi distruttivi del paziente stesso, sia capace di 
mettere (o rimettere) in moto quella bipartizione dello psichismo, l'assenza della 
quale determina appunto la posizione esistenziale dell'onnipotenza-impotenza.
(tratto dalla prefazione al libro)



IL MESTIERE DI UOMO, RICERCA SULLA PSICOSI
 Biblioteca Marsilio 
Psicologia analitica
 Marsilio Editore, Lucca, 1977



GIUSEPPE MAFFEI, libero docente in psichiatria, ha studiato presso l'università 
di Pisa. Membro dell'Associazione Ita
liana per lo Studio della Psicologia Ana
litica e dell'Associazione Internazionale 
di Psicologia Analitica.


Autore di formazione junghiana, un libro "datato" ma ancora di grande interesse per gli studiosi delle psicosi.

giovedì 27 settembre 2018

La bibliografia psichiatrica secondo Sandro Veronesi



Nell'ultimo libro di Sandro Veronesi, XY, una psichiatra - Giovanna Gassion - ed un parroco di montagna - don Ermete -, si ritrovano insieme in una strana ed a tratti incomprensibile avventura nello sperduto borgo di San Giuda, parrocchia di don Ermete.
La psichiatra lascia il suo lavoro, la sua città e le storie della sua vita  per raggiungere il prete nel paesino di montagna, i cui abitanti sembrano in preda ad una sorta di follia collettiva.

Partendo, sceglie dei testi da portarsi appresso, configurando così una sorta di bibliografia essenziale di psichiatria.

"... Speriamo di avere portato i libri giusti, piuttosto, perché avevo poco spazio nella sacca e senza internet non è che si possa sbirciare dappertutto: il DSM IV; ovviamente, e l' ICD 10, ovviamente - versioni in italiano, ovviamente; poi Freud, ovviamente, e non potendo portare tutti e dodici i volumi delle opere complete ho dovuto scegliere e ho scelto quello che contiene L'interpretazione dei sogni, quello che contiene l'Introduzione alla psicoanalisi, e quello che contiene Psicologia delle masse e analisi dell'io e i due scritti sulla telepatia che ormai mi ero messa in mente di rileggere, appena possibile, per via del paziente telepatico di Cles, come si chiama, anche se con questa faccenda non c'entrano; poi Sulla natura umana di Winnicott, che c'entra con tutto; poi Il cambiamento catastrofico di Bion, per le sue teorie sui gruppi; poi Auto da fé di Elias Canetti - non so neanch'io perché, visto che l'ho letto tanti anni fa e lo ricordo confusamente. E il Prontuario farmaceutico. Fine. Non c'era più posto nella sacca."

Francesco Giubbolini, psicoterapeuta - siena 

P.S. Aggiungerei, di mio, "La Malattia chiamata uomo", Di Ferdinando Camon

lunedì 24 settembre 2018

ADHD (Deficit di attenzione e iperattività) e Asma

Potrebbe sussistere una forte connessione fra asma e deficit di attenzione /iperattività (ADHD) che rende i soggetti con una delle due patologie più propensi a sviluppare l’altra, come suggerisce un’indagine condotta su più di 210.000 pazienti. L’incremento del rischio ammonta al 45-53%, come affermato da Samuele Cortese dell’Università di Southampton, autore dello studio.

Non si conoscono però le ragioni alla base del fenomeno. L‘analisi non ha esaminato dati provenienti da esperimenti atti a comprovare alcuna teoria in merito, e non è possibile escludere che sussista un terzo fattore che causi entrambe le malattie. E' possibile che sussistano alterazioni infiammatorie comuni che rendano il cervello di alcuni bambini più propenso a sviluppare l’ADHD in presenza di asma, oppure che le alterazioni del sonno causate dai disturbi della respirazione incrementino la probabilità di sviluppare questa comorbidità.

L’asma rappresenta la patologia respiratoria cronica più comune in assoluto, e si stima che colpisca 358 milioni di persone nel mondo, fra cui il 5% dei residenti in zone a basse reddito e più del 20% della popolazione nelle zone ad alto reddito.

L’ADHD, al contempo, interessa il 5% circa dei bambini in età scolare, ed il 2,5% degli adulti in tutto il mondo. Alla luce di questi dati sarebbe giustificato ricercare i sintomi dell’asma nei pazienti con ADHD e viceversa, anche perché i sintomi di una delle due patologie potrebbero facilitare l’insorgenza di quelli dell’altra, come suggerito da alcuni esperti.

I soggetti asmatici possono andare incontro a tosse, sibilo e dispnea notturna, il che porterebbe ad una scarsa qualità del sonno e potenzialmente ai sintomi di ADHD; ma è possibile anche che lo stress psicosociale correlato ai sintomi di ADHD possa portare alla disregolazione della funzionalità immunitaria, il che potrebbe scatenare o esacerbare i sintomi asmatici.

Sia l’asma che l’ADHD inoltre presentano forti componenti genetiche, e potrebbe darsi che i soggetti più esposti all’asma risultino anche maggiormente suscettibili all’ADHD a livello genetico.

Fonte: Lancet Psychiatry online 2018

Bulimia Nervosa: psicopatologia e clinica

Articolo su: Bulimia Nervosa, pubblicato su:  Toscana Medica

Francesco Giubbolini Psichiatra e psicoterapeuta

I criteri diagnostici di una sindrome che solo da quindici anni possiede una connotazione nosografica propria. Un problema magglore rispetto a quello, parallelo, dell'anoressia mentale.
La Bulimia Nervosa (BN) è un di­sordine del comportamento alimenta­re attualmente considerato entità cli­nica separata dall'Anoressia Mentale (A.M.). Quadro clinico di recente ac­quisizione, ha assunto negli ultimi decenni sempre maggiore importan­za. Bulimia significa, letteralmente, `fame da bue'; disturbo raramente ci­tato nelle pubblicazioni mediche pri­ma degli anni '60, successivamente è stata a lungo considerata sintomo, componente o variante dell'anoressia, mentre attualmente la bulimia viene ritenuta entità clinica a sé stante, e ciò sebbene esista una parziale so­vrapposizione, clinica e psicopatologi­ca, rispetto all'anoressia mentale.
Nel 1980 il DSM III identificava, tra i Disturbi dell'Alimentazione, la `Bulimia" come entità nosografica se­parata dell'Anoressia Mentale e ca­ratterizzata, essenzialmente, da epi­sodi ricorrenti di eccessi alimentari.

Nel 1987 il DSM III-R ribattezzava la sindrome come `Bulimia Nervosa" specificandone meglio, al contempo, i criteri diagnostici:
1) Episodi ricorrenti di eccessi ali­mentari.
2) Frequente ricorso a purghe e sensibile restrizione alimentare tra gli episodi bulimici.
3) Persistente ed esagerata preoc­cupazione per il peso e la forma del corpo.


Il DSM riserva un apposito ca­pitolo ai Disturbi dell'Alimentazione, precedentemente inseriti nei Disturbi dell'Infanzia Adolescenza e Fanciul­lezza, in sintonia con il progressivo aumento dei disordini alimentari ve­rificatosi negli ultimi dieci anni; crite­ri diagnostici aggiuntivi, rispetto alla precedente definizione, la sensazione di mancanza di controllo sul compor­tamento alimentare, l'eventuale ri­scontro di una intensa attività fisica tendente ad evitare (aumento di peso come alternativa all'uso di purganti o al vomito auto-indotto), infine il cri­terio "quantitativo", codificato in una media di due episodi di orgia alimen­tare alla settimana per un periodo di almeno tre mesi.
Si ritiene che la Bulimia nervosa sia da 5 a 10 volte più diffusa dell'anoressia mentale, che l'età me­dia di esordio sia tra i 12 ed i 20 anni, quindi più tardiva rispetto a quella per l'ANORESSIA MENTALE, anche per la B.N. vi è sta­to un aumento di prevalenza in tutto il mondo occidentale. Esiste una par­ziale sovrapposizione, clinica e psico­patologica, tra anoressia e bulimia. Tuttavia, la bulimia non conduce mai ai livelli di estrema emaciazione tipici dell'anoressia, ed il peso corporeo vie­ne generalmente mantenuto entro li­miti normali. Il disturbo dell'immagi­ne corporea che è tipico dell'anoressia nella bulimia non è frequente e, co­munque, non altrettanto marcato.

Clinica

I pazienti bulimici, per la maggior parte giovani donne, vivono con la convinzione (raramente giustificata) di essere sovrappeso, e sono contem­poraneamente incapaci di controllare l'apporto alimentare: alternano così periodi di dieta più o meno serrata ad episodi di vere e proprie `abbuffate', opportunamente definite `orge ali­mentari'.
La clinica della bulimia nervosa è sintetizzabile nella seguente immagi­ne: un soggetto femminile che ha fre­quenti episodi di abuso di cibo seguiti solitamente dalfauto-induzione di vo­mito o dall'uso di purganti, e che di­mostra intensa e costante preoccupa­zione per la forma ed il peso del pro­prio corpo.
La crisi bulimica è vissuta solita­mente in ore notturne, in solitudine: durante la crisi i pazienti ingurgitano con estrema voracità quantità enormi di cibo. La crisi solitamente fa seguito ad un impulso, sul quale il paziente sembra non riuscire ad esercitare al­cun controllo. E seguita da intensi sentimenti di colpa.
Durante il periodo intercritico si riaffaccia la preoccupazione per il pe­so e la forma del corpo e vengono at­tuate strategie volte al mantenimen­to del peso ai livelli normali. Tra que­ste, prima di tutte la restrizione die­tetica; oltre al vomito autoindotto e all'uso di purganti, spesso si riscontra una intensa e quasi ossessiva attività fisica; è da notare, a questo proposito, che spesso traumi e distorsioni osteo­articolari e/o muscolari, dovuti ap­punto all'eccessivo esercizio, possono essere il primo segnale indicativo dell'esistenza di una patologia buli­mica. Per fare un esempio, sulla rivi­sta "Lancet” è stato pubblicato nel 1985 il resoconto di un caso di Disor­dine della condotta alimentare laten­te, diagnosticato grazie ad una grave lesione provocata dalla pratica sportiva. Anche componenti ossessive sono di costante riscontro nella psicopato­Jogia bulimca; la crisi bulimca stes­sa è; di per sè, compulsiva, così come ossessive e costanti sono le preoccu­pazioni per il peso corporeo, mentre l'ideazione è costantemente incentra­ta su problematiche collegate al cibo e all'atto di cibarsi. Tratti ossess1`~ i di personalità sono infine evidenti an­che in: aree che nulla hanno a che fa­re con le problematiche `alimentari'.

Di frequente riscontro; nei pazienti. bulimici, la presenza di sintomi ap­partenenti alla sfera depressiva: strumenti di inadeguatezza e vergo­gna, ritiro sociale più o meno intenso, sentimenti di indegnità e colpa (talo­ra successivi alle crisi bulemiche, vis­sute come un abbandono alle proprie pulsioni, ma spesso presenti costan­temente).

Terapia

Il riscontro dei sintomi di natura depressiva associato a bulimia è il motivo per cui si afferma comune­mente l'efficacia della terapia farma­cologica antidepressiva nei confronti della bulimia. Qualora questa venga scelta, sebbene siano numerosi i far­maci a proposito dei quali si è affer­mata una qualche efficacia nel conte­nimento della sintomatologia buiimi­ca, è opportuno rivolgersi a farmaci antidepressivi di tipo serotoninergico, ad esempio fluoxetina (a dosi di 20-40 mg/die). E da notare, tuttavia, che non esistono studi controllati a lungo termine sull'efficacia del trattamento farmacologico a base di antidepressi­vi; gli studi esistenti si limitano infat­ti ad un periodo inferiore alle dieci settimane e valutano solo l'efficacia del trattamento a breve termine. Inoltre, dati preliminari sembrano indicare che la sospensione del trat­tamento è sovente seguita da ricadu­te.

All'eventuale trattamento farma­cologico va sempre associato il tratta­mento psicoterapico (psicoterapia breve di tipo psicodinamico) che sem­bra essere il trattamento di elezione. Una consulenza psichiatrica - psico­terapica è comunque sempre da ri­chiedere, trattandosi di un riscontro clinico - nosografico unitario il quale però riconosce alla sua base assetti psicopatologici i più diversi.

Psicoterapia  della Bulimia Nervosa


La conoscenza sull'efficacia della psicoterapia nel trattamento della bulimia nervosa (B.N.) e dei disturbi del comportamento alimentare è molto eterogenea.
Abbiamo una conoscenza discreta sull'efficacia della terapia della bulimia negli adulti.

Nella B.N. i trattamenti devono essere ritagliati in base alle caratteristiche dei singoli pazienti, ed essere accettabili per il malato e per la sua famiglia.
Nei casi adolescenziali è importante coinvolgere la famiglia, e si può ottenere un esito soddisfacente anche solo con la psicoterapia in fase ambulatoriale.

Un buon accordo tra coloro che si occupano del trattamento psicoterapico dei disordini del comportamento alimentare sembra esistere a proposito dell'idea che alcuni aspetti del disturbo di personalità, come l'impulsività e le caratteristiche borderline, possano essere predittivi di un esito meno favorevole.

Tuttavia la principale conclusione a cui si giunge con maggiore chiarezza, dall'esame della letteratura sui predittori di esito pre-trattamento, è che nessuno di quelli identificati è particolarmente utile ai fini della scelta del trattamento più adatto ad un particolare paziente.

Esistono, inoltre, alcune circostanze particolari nelle quali è necessario identificare i fattori di rischio alla prima valutazione e prenderli in considerazione nella programmazione del trattamento del paziente, sia a breve che a lungo termine.

Questo é il caso dei pazienti con storia di autolesionismo, tentativi di suicidio ed altri comportamenti ad alto rischio, delle pazienti in gravidanza o con figli piccoli e dei soggetti con comorbilità, ad esempio, con diabete mellito. Contrariamente all'anoressia, il corpus della ricerca sul trattamento della B.N. è più nutrito e qualitativamente migliore.

Le principali conclusioni raggiunte possono essere così sintetizzate: la psicoterapia è, attualmente, la forma di trattamento più studiata e ritenuta più efficace ai fini della risoluzione del disordine bulimico.

mercoledì 19 settembre 2018

Danno biologico di natura psichica

Il danno biologico di natura psichica determina, conseguentemente ad un trauma, una patologia della salute psichica della persona accertabile tramite diagnosi clinica.

Il concetto di danno biologico è riferito ad ogni modo d’essere ed ogni potenzialità dell’essere umano, comprese tutte quelle manifestazioni dell’individuo inerenti la sfera relazionale, la vita affettiva, le funzioni cognitive e la personalità nel suo insieme.




Danno psichico, danno esistenziale, danno morale

Il danno psichico è diverso da quello fisico poiché non ha manifestazioni esteriori tangibili, riguardando la psiche e non il soma.

Tale menomazione riguarda una riduzione, duratura ed obiettivabile, di una o più funzioni della psiche al punto di impedire al danneggiato di attendere alle proprie attività ordinarie di vita. Tale danno si manifesta quindi come alterazione della integrità psichica, in quanto modificazione qualitativa delle componenti psichiche fondamentali quali ad esempio affettività ed umore.

Il danno psichico costituisce dunque, conseguentemente ad un trauma, una patologia della salute psichica dell’individuo e viene accertato tramite una diagnosi nosografica - descrittiva (DSM V).


Il danno esistenziale, riscontrabile anche in assenza di una vera e propria psicopatologia, si esprime attraverso una modificazione della personalità del modo di vivere la propria vita rispetto a quanto avveniva precedentemente al verificarsi di un evento traumatico, e comporta un cambiamento di progettualità rispetto alla propria esistenza ed alle proprie aspettative. Si presenta quindi come una compromissione dell’espressione soggettiva della personalità stessa, modificando lo stile e la qualità della vita.

Il danno morale infine è un turbamento d’animo soggettivo e transeunte conseguenza del fatto illecito subito. Il concetto fa riferimento ad uno stato di prostrazione e dolore causato da un trauma che non giunge sino ad alterare l’equilibrio e le modalità di relazione e che non comporta una invalidità temporanea o permanente, ovvero non determina l’insorgenza di una vera e propria patologia psichica.

La differenza dunque tra danno psichico e danno morale è che il danno psichico comporta una psicopatologia, quello morale una sensazione di dolore che non inficia la normale vita di relazione.
Il danno esistenziale, invece, è l’insorgere di un modo di comportarsi diverso da prima, con alterazioni dei ritmi di vita e delle attività quotidiane, ovvero l’alterazione dei processi di adattamento della vita quotidiana.


La valutazione e quantificazione del danno biologico di natura psichica (danno psichico)

Ciò che il perito deve valutare, al momento della consultazione, è la presenza di un danno permanente. E’ questo riferibile alla condizione duratura, permanente, su cui riassesta la psicopatologia del soggetto in conseguenza del trauma subito.

Una volta che si sia individuata la diagnosi nosografica la quantificazione del danno tiene in considerazione:

la gravità clinica del disturbo in senso assoluto,

la gravità in termini intra-categoriali (lieve, moderato o grave, con o senza co-morbilità),

la menomazione del funzionamento generale.

E’ stato altresì individuato un riferimento tra la percentuale da attribuire al danno e le scale del funzionamento globale e del funzionamento sociale e lavorativo (Scale VGF e VFSL del DSM IV).

Oltre al danno permanente deve essere anche valutato ed indennizzato il danno temporaneo, ovvero l’andamento nel tempo della psicopatologia, che di solito prevede una fase iniziale di acuzie che successivamente si riduce, si cronicizza o si estingue. Ci si riferisce, relativamente al danno temporaneo, a percentuali di menomazione, una per ogni “fase” di psicopatologia - percentuali che possono essere di intensità massimale, di grado medio - elevato e minimale. Il danno temporaneo prevede dunque l’identificazione di disturbi pregressi che al momento della valutazione appaiono risolti, ma che prevedono comunque un indennizzo.


Il nesso causa - effetto

E’ fondamentale, nel processo peritale, individuare il nesso causa - effetto esistente tra il trauma subito e la psicopatologia.

A tale dopo è fondamentale ricostruire il funzionamento della persona prima del trauma, verificare la corrispondenza tra evento ed insorgenza della psicopatologia, verificare altresì la presenza/assenza di altri eventi traumatici concomitanti o cumulati nel tempo.

Diventa quindi fondamentale riuscire a stimare quanto della attuale patologia è da attribuire all’evento in sé e quanto invece alla vulnerabilità individuale.

Deve essere inoltre individuato il criterio di proporzionalità, ovvero la reale portata psico-lesiva dell’evento occorso.




Il materiale didattico di tale pagina è tratto dal corso sulla Valutazione Peritale del Danno biologico di Natura Psichica nell'ambito del Master in Psicologia Giuridica promosso dallo Studio RiPsi di Milano, edizione 2017. 

Francesco Giubbolini, psichiatra

sabato 15 settembre 2018

Anoressia Mentale: clinica

Di per sè, l'anoressia è la perdita totale o parziale dell'appetito; è un sintomo che rinvia o a una malattia organica o a una malattia psicogena connessa a disturbi dell'affettività.

Nell'ambito delle anoressie ha un particolare rilievo l'anoressia mentale o nervosa che è uno stato patologico che insorge prevalentemente in giovani donne per conflitti di tipo emotivo, i più comuni dei quali riguardano l'accettazione del proprio ruolo femmi­nile, e per conflitti psicologici maturati all'interno del nucleo familiare e in particolare - in genere - con la figura della madre.

A parte il rifiuto ad alimentarsi é l'ap­parente totale mancanza di preoccupazione per il vistoso dimagrimento, il comportamento appare vi­vace e normale, anche se l'estrema debolezza può portare a condizioni anche mortali.

Tre sono i segni che consen­tono di distinguere un'anoressia mentale dalle altre forme di anoressia:

1) il disturbo dell'immagine cor­porea di proporzioni deliranti da cui dipende anche l'assenza di preoccupazione per stadi anche gravis­simi di emaciazione;
2) il disturbo della percezione e cognizione degli stimoli provenienti dal corpo, da cui dipendono, ad esempio, l'iperattività, nono­stante l'evidente esaurimento di energia e l'eccessiva persistenza delle posture corporee estremamente di­sagevoli, come se il corpo non ne soffrisse;
3) il senso paralizzante di impotenza cui si collega il ter­rore di perdere il controllo sui propri istinti orali ed essere travolti dall'impulso incontrollato a mangiare.

Dal punto di vista psicodinamico M. Selvini Pa­lazzoli scrive che «il cibo non è per le anoressiche affatto negativo come cosa in sé, [...] ma è amabile, desiderabile, interessante, importante, continua­mente presente allo spirito. [...] È l'atto di cibarsi che è divenuto pericoloso e angoscioso. Nessuna azione, neppure un delitto, assume per l'anoressica un significato di auto-degradazione e sconfitta quanto il satollarsi»
All'origine di un comportamento anoressico c'è «una madre ag­gressivamente iperprotettiva e impervia, incapace di concepire la figlia come una persona nel suo proprio diritto. Non di rado è la coppia parentale, nella sua complementarità patologica o l'intero gruppo fami­liare sabotatore dei bisogni di base dell'Io dell'ano­ressica. [...] Quando la pubertà del corpo femminile espone la giovinetta ad un'esperienza brusca e trau­matizzante, il proprio corpo infantile deve essere di­sinvestito dalla libido narcisistica al fine di ri-inve­stire narcisisticamente il corpo nuovo, ma questo passaggio non riesce perché la paziente non è in grado di sentire il corpo adulto che va assumendo come suo, perché troppo simile al corpo della madre da cui l'lo vuole ad ogni costo distinguersi. [...] Si struttura così una difesa dell'Io dominata dal rinne­gamento del corpo e del cibo-corpo per identificarsi ad un'imago corporea ideale, desessualizzata e acar­nale»

L'anoressia mentale va distinta dalle anoressie reattive che possono insorgere in ogni età in rap­porto a un trauma emotivo umiliante e deludente, ­dalle anoressie croniche che iniziano nella prima in­fanzia e migliorano solo transitoriamente nell'adole­scenza persistendo per tutta la vita con numero­si disturbi ipocondriaci; dai dimagrimenti per difficoltà meccanico funzionali ad alimentarsi quali disfagie, fobie, spasmi esofagei e vomiti incoercibili, dai rifiuti del cibo di origine malinconica o schizo­frenica, e infine dalle anoressie di origine endocrina.

giovedì 13 settembre 2018

Disturbo Da Alimentazione Incontrollata (BED)




E' un disturbo alimentare di tipo simil bulimico che si manifesta con episodi ricorrenti di assunzioni protratte di cibo, associate alla sensazione di perdere il controllo dell'atto del mangiare, e non seguite da manovre di eliminazione o altri comportamenti compensatori.


Sono pazienti che quando finalmente si rivolgono ad uno specialista si presentano autenticamente preoccupati per l'aumento di peso, vivono nell'afflizione di non poter controllare l'impulso a mangiare e solitamente sono motivati a recuperare la propria condizione di salute.

L'assunzione di cibo avviene più volte nell'arco della giornata, rapidamente e con frequenza diversa, soprattutto durante le ore durante le quali si resta in casa o in ambienti di lavoro dove è presente il cibo; in generale, i pazienti seguono un regime dietetico regolare "ai pasti", ma negli intervalli tra i pasti si manifestano le assunzioni di cibo incontrollabili e ripetute.

In molti pazienti la quantità di alimenti ingeriti è di solito sottostimata; il senso di ripienezza frena l'ulteriore assunzione di cibo e nelle forme più tipiche non si presentano manovre di eliminazione o altre modalità compensatorie. Questo determina, naturalmente, un apporto calorico continuativo ed eccessivo e non controllabile, con ovvie ripercussioni sul piano metabolico: ad esempio l'aumento ponderale, talora anche consistente (dai 20 ai 30 kg. in alcuni mesi), alterazioni gastroenteriche ed i numerosi problemi abitualmente connessi all'obesità.


I pazienti spesso presentano un quadro clinico di tipo depressivo ed appaiono al colloquio come persone molto sofferenti e piene di vergogna. Presentano quindi un'insoddisfazione di fondo di natura depressiva, con tendenza al rimuginio di un senso di avvilimento, di privazione e di vuoto che solo il cibo sembra in grado di alleviare.
Con il progredire del disturbo si manifesta spesso un quadro di generale rallentamento psicomotorio, abulia e vari disturbi del sonno come l'ipersonnia e l'insonnia.

Sul piano psicodinamico si evidenziano conflitti relativi all'autostima, ed aspetti di personalità dipendente.

Criteri diagnostici


Criteri di diagnosi per il Disturbo da Alinzentazione Incontrollata:

a) episodi ricorrenti di alimentazione incontrollata.

(Un episodio di alimentazione incontrollata è caratterizzato dalla presenza di entrambi i seguenti elementi:

1) assunzione in un periodo definito di tempo (p.es.,in un periodo di 2 ore), di un quantitativo di cibo significativamente più abbondante di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe in un simile periodo di tempo e in simili circostanze

2) sensazione di perdita del controllo sull'assunzione del cibo durante l'episodio (p.es., sensazioni di non riuscire a srnettere di mangiare)


b) gli episodi di alimentazione incontrollata sono associati a tre (o più) dei seguenti sintomi:
1) mangiare molto più rapidamente del normale
2) mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieni
3) mangiare gradi quantitativi di cibo anche se non ci si sente fisicamente affamati
4) mangiare da soli a causa dell'imbarazzo per quanto si sta mangiando
5) sentirsi disgustato da se stesso, depresso, o molto in colpa dopo le abbuffate

c) è presente marcato disagio per la propria alimentazione incontrollata


d) la condotta alimentare incontrollata si manifesta, in media, almeno per due giorni alla settimana in un periodo di 6 mesi


e) l'alimentazione incontrollata non risulta associata ali' uso regolare di condotte compensatorie inappropriate (p.es. uso di purganti, digiuno, eccessivo esercizio fisico) e non si manifesta esclusivamente in corso di anoressia nervosa o di bulimia nervosa.


Disturbi psicopatologi frequentemente associati a tale condizione sono i Disturbi dell'Umore, i disturbi d'ansia e i disturbi di personalità.
 

Trattamento


Dal punto di vista terapeutico il Disturbo da Alimentazione Incontrollata richiede, analogamente a ciò che accade per gli altri disturbi del comportamento alimentare, un approccio multidisciplinare di tipo integrato che preveda la presenza di una rete terapeutica e lavoro di equipe tra internista, dietologo e psichiatra.


La terapia risulta efficace in un alta percentuale di casi trattati integralmente e la prognosi è migliore che per la Bulimia Nervosa.

Dal punto di vista strettamente psichiatrico, i pazienti affetti da tale Disturbo possono essere anche favorevolmente trattati con un trattamento psicoterapico diversificato, adatto alla tipologia della paziente, di tipo supportivo o di gruppo.

mercoledì 12 settembre 2018

Disordini del comportamento alimentare

Si definiscono 'DCA', acronimo per 'disordini del comportamento alimentare', e sono quelle sindromi cliniche i cui sintomi più evidenti ruotano attorno ad irregolarità ed anomalie dell'alimentazione.

Considerazioni generali su tali sindromi:

L'anoressia è la perdita totale o parziale dell'appetito; in psichiatria è un sintomo e rinvia ad una sindrome clinica (una malattia psicogena) connessa a disturbi dell'affettività: Anoressia Mentale (A.M.).

Patologia più frequente nel sesso femminile, si ritiene tuttavia che il 5-10 % dei pazienti che soffrono di A.M. siano maschi: in effetti, i disturbi alimentari nei maschi sono una realtà epidemiologica in aumento.

Sebbene la psicoterapia classica non sia utile nelle fasi iniziali del trattamento terapeutico, soprattutto se i pazienti con A.M. si trovano in uno stato cachettico, le psicoterapie ad orientamento dinamico possono essere utili in alcuni casi di anoressia nervosa quando le condizioni psicopatologiche si sono stabilizzate.

Quella invece che si definisce comunemente Bulimia Nervosa (B.N.) è un quadro clinico di più recente acquisizione rispetto a quello dell'A.M., ed è una condizione peculiare, caratterizzata da episodi di abbuffate di cibo, restrizioni alimentari tra un episodio bulimico ed il successivo, costante ed eccessiva preoccupazione per il peso corporeo.

Altre sindromi, più rare: Disturbo da alimentazione incontrollata e Night Eating Disorder (Abbuffate Notturne)

Un breve cenno per quanto riguarda la terapia della bulimia: un buon accordo tra coloro che si occupano del trattamento psicoterapico della B.N. sembra esistere a proposito dell'idea che alcuni aspetti del disturbo di personalità, come l'impulsività e le caratteristiche borderline, possano essere predittivi di un esito più o meno favorevole. Il trattamento psicoterapico consiste in vari interventi, comprese la psicoterapia individuale, la terapia di gruppo e la terapia familiare. A causa della possibile coesistenza di disturbi dell'umore, d'ansia e di personalità, occorre tenere conto di questi disturbi addizionali nel piano di trattamento.

martedì 11 settembre 2018

La personalità ossessivo - compulsiva (anancastica)



l disturbo ossessivo-compulsivo di personalità (personalità anancastica) è caratteriz­zato da costrizione emozionale, eccessiva tendenza all'ordi­ne, perseveranza, ostinazione e indecisione. La caratteristi­ca essenziale di questo disturbo è una modalità pervasiva di perfezionismo e inflessibilità.

Tale disturbo della personalità è cosa diversa rispetto a quello che comunemente si definisce "disturbo ossessivo compulsivo"(leggi la pagina del sito sul DOC, Disturbo Ossessivo-Compulsivo)

Il disturbo è più comune fra i soggetti di sesso ma­schile e si manifesta più frequentemente nei pa­renti di primo grado di persone con il disturbo ri­spetto alla popolazione generale. Spesso i soggetti hanno su­bito un'educazione caratterizzata da rigida disciplina.

Nel colloquio, i pazienti possono avere un atteggiamento duro, forma­le e rigido. La loro affettività non è coartata né appiattita, ma può essere definita ristretta. Mancano di spontaneità e il loro umore è di solito serio. Possono essere ansiosi perché temo­no di perdere il controllo del colloquio. Le loro risposte alle domande sono insolitamente dettagliate. I meccanismi di di­fesa utilizzati sono la razionalizzazione, l'isolamento, l'intel­lettualizzazione, la formazione reattiva e l'annullamento.

I soggetti con tale disturbo sono preoccupati delle regole, dei regolamenti, dell'ordine, della precisione, dei dettagli e del raggiungimento della per­fezione. Questi tratti spiegano una generale costrizione dell'intera personalità. Insistono sul fatto che è necessario seguire rigidamente le regole e non sono in grado di tolle­rare quelle che considerano infrazioni: di conseguenza, mancano di flessibilità e sono intolleranti. Sono in grado di eseguire lavori prolungati, a patto che siano routinari e non richiedano cambiamenti ai quali non riescono ad adattarsi.

Le capacità interpersonali dei pazienti con tale disturbo di personalità sono limitate. Sono formali e seri e mancano di senso dell'umorismo. Si alienano alle per­sone, sono incapaci di compromessi e insistono perché gli al­tri si sottomettano ai loro bisogni. Tuttavia, sono desiderosi di piacere a quelli che vedono come più potenti di loro e ma­nifestano i loro desideri in modo autoritario. Poiché temono di compiere errori, sono indecisi e rimuginano sulle decisioni da prendere. Sebbene siano comuni un matrimonio stabile e un adeguato adattamento lavorativo, i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità hanno pochi amici. Qual­siasi cosa minacci di sconvolgere la routine della vita degli in­dividui o la loro stabilità può indurre notevole ansia, che al­trimenti è mantenuta sotto controllo attraverso i rituali che impongono alla loro vita e tentano di imporre agli altri.

domenica 9 settembre 2018

Considerazioni sull'insonnia



Nella decima revisione dell'International Classification oi Diseases and Related Health Problems (ICD-10) i disturbi del sonno comprendono solo le forme di origine non organica. Questi disturbi sono classificati come dissonnie, condizioni psicogene "in cui i disturbi predominanti ... [sono] relativi alla quantità, alla qualità o agli orari del sonno" dovuti a cause emozionali; e parasonnie "eventi episodici anormali che si manifestano durante il sonno". Le parasonnie dell'infanzia sono correlate allo sviluppo; quelle nell'età adulta sono psicogene e comprendono il sonnambulismo, il pavor nocturnus e gli incubi notturni.

L'ICD-10 afferma che i disturbi del sonno sono spesso sintomi di altri disturbi, ma anche quando non lo sono, si dovrebbe diagnosticare lo specifico disturbo del sonno insieme a tutte le altre diagnosi rilevanti necessarie per descrivere la "psicopatologia e/o la fisiopatologia coinvolta nel singolo caso".

DSM-IV

La quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual oi Mental Disorders (DSM-IV) classifica i disturbi del sonno sulla base dei criteri diagnostici e dell'eziologia presunta. Le tre principali categorie dei disturbi del sonno nel DSM-IV sono i disturbi primari del sonno, i disturbi del sonno correlati a un altro disturbo mentale e gli altri disturbi del sonno, soprattutto quelli dovuti a una condizione medica generale o indotti da sostanze. I disturbi descritti nel DSM-IV sono solo una piccola parte dei disturbi del sonno noti e forniscono uno schema per una valutazione clinica.

DISTURBI PRIMARI DEL SONNO

Il DSM-IV definisce i disturbi primari del sonno come disturbi non causati da un altro disturbo mentale, una condizione fisica o una sostanza, ma piuttosto da un meccanismo anormale del ritmo sonno-veglia o spesso dal condizionamento. I due principali disturbi primari del sonno sono le dissonnie e le parasonnie. Le dissonnie sono un gruppo eterogeneo di disturbi del sonno e comprendono l'insonnia primaria, l'ipersonnia primaria, la narcolessia, il disturbo del sonno correlato alla respirazione, il disturbo del ritmo circadiano del sonno (disturbo del ritmo sonno-veglia) e la dissonnia non altrimenti specificata (NAS). Le parasonnie comprendono il disturbo da incubi (disturbo d'ansia collegato ai sogni), il pavor nocturnus [nel DSM-IV definito letteralmente come disturbo da terrore nel sonno], il sonnambulismo (disturbo da sonnambulismo) e le parasonnie NAS.


Insonnia primaria


L'insonnia primaria è diagnosticata quando il principale problema è la difficoltà a iniziare o a mantenere il sonno, oppure il sonno non offre ristoro e il disturbo persiste per almeno un mese. (Secondo l'ICD-10 il disturbo deve manifestarsi almeno 3 volte alla settimana per un mese.) Il termine primaria indica che l'insonnia si manifesta indipendentemente da qualsiasi malattia fisica o mentale nota. L'insonnia primaria è spesso caratterizzata sia da difficoltà di addormentamento sia da ripetuti risvegli. Sono spesso evidenti un aumento dell'arousal fisiologico notturno o di quello psicologico e un condizionamento negativo per il sonno. In generale, i pazienti con insonnia primaria vorrebbero riuscire a dormire più a lungo. Più il soggetto tenta di dormire, maggiore è il senso di frustrazione e di afflizione e più è difficile che si addormenti.

Il trattamento dell'insonnia primaria è tra i più difficili problemi dei disturbi del sonno.

Quando la componente di condizionamento è preminente, può essere utile una tecnica di decondizionamento. Si consiglia ai pazienti di usare il letto per dormire e non altro; se non si addormentano dopo cinque minuti di permanenza a letto devono alzarsi e far altro. Talvolta, è utile cambiare letto o andare in un'altra stanza. Quando è prevalente la tensione somatizzata o la tensione muscolare, sono talvolta utili le risposte di rilassamento e il biofeedback. La psicoterapia non si è dimostrata molto utile nel trattamento dell'insonnia primaria.
L'insonnia primaria viene comunemente trattata con ipnotici benzodiazepinici, cloralio idrato o altri sedativi. I farmaci ipnotici dovrebbero essere usati con cautela. Gli ipnotici da banco hanno un'efficacia limitata. Varie misure non specifiche -la cosiddetta igiene del sonno - possono essere utili nell'aiutare a migliorare il sonno. È importante che il medico rassicuri i pazienti con insonnia che la loro salute non è a rischio se non ottengono 6 o 8 ore di sonno.

Viene usata anche la fototerapia. Gli ipnotici a lunga durata d'azione (ad esempio, flurazepam, quazepam) sono migliori per l'insonnia che insorge a metà della notte; i farmaci a breve durata d'azione (ad esempio, zolpidem e triazolam) sono utili per le persone che hanno difficoltà ad addormentarsi. In generale, gli ipnotici non dovrebbero essere prescritti per più di 2 settimane perché possono insorgere tolleranza e rischi di astinenza.

Tra gli SSRI la Mirtazapina viene efficacemente utilizzata, a dosi variabili, per la cura dell'insonnia.

venerdì 7 settembre 2018

Cenni su: Attacco di Panico - I sintomi



Gli attacchi di panico sono spesso del tutto spontanei, anche se occasionalmente possono far seguito a eccitazione, esercizio fisico, attività sessuale o a un trauma emotivo modesto. Generalmente le prime crisi sono inaspettate (senza causa scatenante) e spesso iniziano con un periodo di 10 minuti di rapido aumento della gravità dei sintomi.

Quali sono i sintomi del panico:

quelli mentali sono paura estrema e senso di morte imminente. I pazienti di solito non sono in grado di riferire la fonte della loro paura, si sentono confusi e hanno difficoltà di concentrazione.

I segni fisici spesso comprendono tachicardia, palpitazioni, dispnea e sudorazione.

I pazienti spesso cercano di abbandonare qualunque situazione nella quale si trovano per cercare aiuto.

La crisi di panico di solito dura da 20 a 30 minuti e raramente più di un'ora.

Tipicamente, si risontrano quattro (o più) dei seguenti sintomi, che si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nell'arco di 10 minuti:

(1) palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia
(2) sudorazione
(3) tremori o scosse
(4) dispnea o sensazione di oppressione
(5) sensazione soffocamento
(6) dolore o fastidio al petto
(7) nausea o disturbi addominali
(8) sensazione di sbandamento, instabilità, stordimento, o svenimento
(9) derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere staccati da se stessi)
(10) paura di perdere il controllo o di impazzire
(11) paura di morire
(12) parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio)
(13) brividi o vampate di calore

Un esame formale delle condizioni mentali durante un attacco può rivelare difficoltà a parlare (balbettio) e un'alterazione della memoria. I soggetti colpiti possono provare depersonalizzazione (una sorta di 'offuscamento' del senso di sé) durante un attacco. I sintomi possono recedere rapidamente o gradualmente. Fra un attacco e un altro i pazienti possono presentare ansia anticipatoria relativa alla possibilità di avere un altro attacco.

I timori fisici di morte a causa di un problema cardiaco o respiratorio possono rappresentare il principale oggetto dell'attenzione del paziente durante gli attacchi di panico. I soggetti possono ritenere che palpitazioni e dolore toracico indichino l'imminenza della morte. Tipicamente i pazienti che si presentano al Pronto Soccorso sono giovani (ventenni), in ottima salute fisica e nonostante ciò affermano con insistenza di essere sul punto di morire per un attacco cardiaco.

Anziché diagnosticare immediatamente un'ipocondria, il medico del Pronto Soccorso dovrebbe considerare la diagnosi di attacco di panico.

Un caso clinico

Una donna di 26 anni si presentava in ospedale lamentando attacchi di terrore e l'effetto negativo che essi avevano sulla sua esistenza. Circa un anno prima, mentre era a casa davanti al televisore, aveva avvertito un inspiegabile attacco di ansia, accompagnato da cardiopalmo, senso di mancanza di aria, costrizione toracica ("come se qualcuno fosse seduto su di me"), intorpidimento delle dita di mani e piedi e forte tremore. Sebbene l'attacco passasse dopo pochi minuti si era precipitata al Pronto Soccorso dell'ospedale locale, convinta di avere avuto un attacco di cuore. Tutti gli esami fisici sultarono negativi.
Circa 5 mesi dopo il primo attacco aveva sperimentato un altro episodio mentre si recava a piedi al suo lavoro. Di nuovo, l'attacco sembrava venire dal nulla. Prese un giorno di malattia e consultò un cardiologo. I risultati di tutti gli esami furono negativi. Il cardiologo le disse che era affetta da ansia e le prescrisse un blando tranquillante.
Un terzo attacco con i medesimi sintomi si verificò 3 mesi dopo, mentre la paziente si trovava al supermercato. In preda al terrore essa lasciò cadere la spesa e corse a casa.
La frequenza degli attacchi crebbe rapidamente. da un attacco ogni poche settimane a un attacco tutte le settimane e quindi tutti i giorni. Non c'era modo di evitarli - essi si verificavano a casa, al ristorante, al lavoro. Ben presto divenne così preoccupata dai propri attacchi da non riuscire a concentrarsi sul lavoro. Quando si presentò in studio era soggetta ad attacchi multipli giornalieri da quasi due mesi.

giovedì 6 settembre 2018

Considerazioni generale sui disturbi depressivi



Quella che comunemente si definisce depressione è in realtà una sindrome caratterizzata da evidenze cliniche diverse, e che riporta presumibilmente a patologie di diversa natura.




La malinconia o depressione endogena o maggiore (la definizione che segue è stata formulata da Freud):
" Profondo e doloroso scoramento, un venir meno all'interesse per il mondo esterno, perdita delle capacità di amare, inibizione di fronte a qualsiasi attività, avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimprovero o autoingiurie e culmina in un grandioso senso di colpa con l'attesa delirante di una punizione."

Depressione reattiva (la definizione seguente è di Breuler):
"attenuatasi la dolorosa disperazione sulla propria disgrazia, riasciugate le lacrime, quando il peggio sembra superato, lo sventurato si ritrova come impietrito, non ha più gli interessi di prima, niente più lo può rallegrare e avvincere, i familiari gli sono indifferenti la vita ha perduto ogni attrazione, le percezioni hanno perso rilievo e plasticità."

Depressione cronica
Permangono con minor gravità i sintomi della fase depressiva acuta, in particolar modo il ritiro sociale, l'apatia, la scontentezza, il pessimismo. Il paziente non riesce a superare la perdita dell'oggetto (ovvero la fase del lutto), che continua a cercare ed a rimpiangere, rimproverando di continuo le persone con le quali entra in relazione, di non essere all'altezza dell'oggetto perduto o non raggiunto.

Nella Depressione mascherata
Prevale il disturbo somatico sui sintomi psichici, e l'alterazione del tono dell'umore può non essere evidente. Nelle patologie depressive sono sempre, variamente, presenti sintomi 'fisici' che però nella depressione mascherata assumono particolare rilievo tanto da essere preminenti sul piano clinico.

la Depressione senile è caratterizzata invece dal fatto che
possono essere presenti inquinamenti paranoidei, ipocondria marcata, a volte confusione. Alcuni quadri devono essere differenziati dalla demenza senile e spesso, specie nelle fasi inziali della malattia, può essere particolarmente difficile la diagnosi differenziale tra depressione senile ed iniziale deterioramento cognitivo senile.

Infine, rammentiamo la Depressione organica, che è quella particolare forma di depressione secondaria all'assunzione di alcuni farmaci (ad esempio roserpina) di allucinogeni o ad alcune patologie (malattie infettive, calcinoma del pancreas, ipotiroidismo).

Naturalmente, per la depressione così come per le altre patologie di natura mentale, fondamentale rammentare quello che viene definito 'il primato della diagnosi', ovvero la necessità di distinguere correttamente la natura del disturbo depressivo al fine di impostare le più idonee modalità di cura della depressione.

dr. francesco giubbolini, siena
www.studiopsicoterapia.si.it

mercoledì 5 settembre 2018

"Sindrome Ansioso - Depressiva"



Considerazioni generali sul significato, in psichiatria, del termine 'sindrome', e note sui disturbi d'ansia e sui disturbi depressivi (le c.d. sindrome ansiosa e sindrome depressiva).

Il termine 'sindrome' fu introdotto da Ippocrate per indicare un insieme di sintomi, ciascuno dei quali, unitamente agli altri, rinvia ad un quadro clinico riconoscibile.

Il termine ricorre con partico­lare frequenza e rilevanza in psichiatria dove, a differenza di quanto avviene in medicina, la relazione che dal sintomo rinvia alla causa patogena non è evidente come in ambito somatico (biologico).


La 'sindrome ansiosa'

Situazioni cliniche nelle quali la componente 'ansia' è particolarmente evidente, anche se inserita in contesti clinici che possono essere profondamente diversi gli uni dagli altri.

In psichiatria si usa il termine 'ansia' per denotare uno stato affettivo per così dire puro. Quando è patologica l'ansia è conside­rata, dal punto di vista psichiatrico, come un sin­tomo e non come una malattia a sé, pertanto può essere presente in qualsiasi malattia psichiatrica o organica, spesso come segno prodromico.

Nella de­pressione, ad esempio, è presente un atteggiamento ansioso per le convinzioni deliranti di indegnità, di colpa e di imperdonabili peccati, mentre nella schi­zofrenia può presentarsi nelle fasi acute per l'insor­genza di allucinazioni o di deliri terrificanti. Infine, nei soggetti che presentano una forma cronica di an­sia sono frequenti altri sintomi come la difficoltà ad addormentarsi, sonno non ristoratore e con incubi, fino all'evoluzione in malattia psicosomatica.

In am­bito psichiatrico si era soliti definire:

La nevrosi d'ansia (espressione - diversamente definita anche come 'sindrome ansiosa' - che venne introdotta nella letteratura da Freud, più di cento anni fa), un quadro psicopato­logico di base che può recedere spontaneamente o evolvere in quadri più strutturati come la nevrosi fobica , l'ipocondria, la depressione, o arricchirsi di disturbi psicosomatici.

Il soggetto affetto da disturbo d'ansia vive in una condizione penosa di incertezza, di di­pendenza dagli altri, dominato da un bisogno conti­nuo di rassicurazioni con tratti di fragilità dovuti agli aspetti immaturi della sua personalità.

L'evolvere della sindrome ansiosa dipende spesso da fattori esterni il cui carattere favorevole o sfavore­vole condiziona decorso e gravità.

Nella attuale nosografia, il quadro clinico nel quale il sintomo 'ansia' è particolarmente in evidenza è il 'disturbo d'ansia generalizzata'

Le 'sindromi depressive'

Sintomi di depressione si ritrovano in numerosissime patologie psichiatriche.

Sotto la generica definizione di 'depressione' si distinguono numerosi quadri clinici, spesso profondamente diversi tra loro.

Si possono sinteticamente distinguere:

Depressioni 'somatogene' in cui si può postulare un rapporto causale diretto con una malattia organica o una disfunzione somatica. In questo ambito si distinguono le depressioni organiche dovute ad arte­riosclerosi, tumori cerebrali, paralisi progressive, ecc., e le depressioni sintomatiche che si riferiscono ai quadri depressivi postinfettivi, postoperatori, tos­sici, ecc.

Le Depressioni cosiddette 'endogene' (vedi il post sul concetto di 'endogeno' in psichiatria), sono le forme classi­che di depressione conosciute e descritte fin dall'an­tichità sotto la denominazione di melanconia.
In questo ambito si distinguono le forme depressive a decorso monopolare, cioè con fasi solo depressive, e depressioni con decorso bipo­lare nel quale si alterna alla fase depressiva quella mania­cale.

Depressioni 'psicogene' trovano infine la loro spie­gazione in motivi psicologici riconoscibili e dimo­strabili. Il caso più evidente è la depressione reattiva (vedi) ad un'esperienza vissuta come perdita. Tale è il lutto, la delusione amorosa, l'insuccesso nell'affer­mazione sociale, la frustrazione delle proprie aspet­tative. In questi casi il criterio di diagnosi è basato su un concetto di normalità statistica relativo al rap­porto tra causa ed effetto eccessivo e inadeguato.

La distinzione tra depressione reattiva e depressione nevrotica, come peraltro la più ampia distinzione tra depres­sione endogena e depressione psicogena, non sono condivise da tutti gli orientamenti psichiatrici, ma sono tuttavia mantenute e continueranno ad esserlo finché non si perverrà ad una definizione più soddi­sfacente del concetto di endogeno.

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Nella attuale nosografia, il quadro clinico che maggiormente si avvicina a quelle che venivano in passato definite sindromi di tipo ansioso-depressivo è il disturbo di adattamento, con le varianti cliniche prevalentemente associate a sintomi di ansia, di depressione, e le forme miste, per l'appunto definite ancora ansioso-depressive (o con ansia e umore depresso misti).