Meccanismi di difesa immaturi
Una sintetica descrizione dei principali meccanismi di difesa patologici.
Blocco
II blocco è un'inibizione temporanea o transitoria del pensiero. Possono essere coinvolti anche gli affetti egli impulsi. Il blocco è molto simile alla repressione, ma differisce da essa perché la tensione sorge quando l'impulso, l'affetto o il pensiero vengono inibiti.
Comportamento dimostrativo
La persona esprime un desiderio o impulso inconscio attraverso l'azione per evitare di essere consapevole dell'affetto che l'accompagna. La fantasia inconscia è vissuta impulsivamente nel comportamento, gratificando così l'impulso, piuttosto che la proibizione nei suoi confronti. Nel comportamento dimostrativo il soggetto cede costantemente agli impulsi per evitare la tensione che deriverebbe dal posporre la loro espressione.
Comportamento passivo-aggressivo
L'aggressione nei confronti degli altri è espressa indirettamente attraverso la passività, il masochismo e l'autoaggressione.
Le manifestazioni del comportamento passivo-aggressivo comprendono insuccessi, procrastinazioni e malattie che colpiscono più gli altri che se stessi.
Fantasia schizoide
Attraverso la fantasia, una persona indulge in un ritiro autistico per risolvere i conflitti e ottenere gratificazione. Viene evitata l'intimità interpersonale e l'eccentricità serve a respingere gli altri. La persona non crede completamente alle fantasie né cerca di metterle in atto.
Regressione
Attraverso la regressione, la persona tenta di ritornare a una fase libidica più precoce del funzionamento per evitare la tensione e il conflitto evocati all'attuale livello di sviluppo. Riflette la tendenza di base di ottenere una gratificazione istintuale appartenente a un periodo precedente dello sviluppo. La regressione è anche un fenomeno normale, poiché una certa quantità di regressione è essenziale per il rilassamento, il sonno e l'orgasmo nel rapporto sessuale.
La regressione viene considerata un concomitante essenziale del processo creativo.
Somatizzazione
I derivati psicologici sono convertiti in sintomi organici, e la persona tende a reagire con manifestazioni somatiche, piuttosto che con sintomi psichici.
Nella desomatizzazione, le risposte somatiche infantili sono sostituite da pensieri e affettività; nella risomatizzazione, la persona regredisce a forme somatiche più precoci quando deve risolvere conflitti.
Introiezione
Benché vitale per gli stadi dello sviluppo della persona, l'introiezione ha anche specifiche funzioni di difesa. Il processo dell'introiezione comporta l'internalizzazione delle qualità di un oggetto; quando viene usato come difesa, può annullare la distinzione tra il soggetto e l'oggetto. Attraverso l'introiezione di un oggetto amato, è possibile evitare la consapevolezza dolorosa della separazione o della minaccia di una perdita. L'introiezione di un oggetto temuto serve a evitare l'ansia attraverso l'internalizzazione delle caratteristiche aggressive dell'oggetto, permettendo così di tenere l'aggressività sotto il controllo del paziente. Un classico esempio è l'identificazione con l'aggressore. Si può realizzare anche l'identificazione con la vittima, per mezzo della quale le qualità auto-punitive dell'oggetto sono assunte e stabilite nel sé come un sintomo o un tratto di carattere.
Ipocondria (vedi anche il post sull' IPOCONDRIA)
La riprovazione derivata dal lutto, dalla solitudine o dagli impulsi aggressivi inaccettabili verso gli altri è trasformata in autoriprovazione e lamentele di sofferenza, malattie somatiche e nevrastenia.
II soggetto può anche esagerare o enfatizzare eccessivamente una malattia con lo scopo di evadere o regredire.
Nell'ipocondria, la responsabilità può essere evitata, la colpa può essere aggirata e gli impulsi istintuali possono essere allontanati. Poiché l'ipocondriaco introietta l'ego-alieno, finisce per provare disforia e senso di dolore.
Sito di aggiornamento su temi di psicoterapia, psicopatologia e psichiatria. Curato dal dr. Francesco Giubbolini Neuropsichiatra e psicoterapeuta con studio a Siena.
martedì 27 novembre 2018
venerdì 23 novembre 2018
Il Lutto Patologico (anormale)
Il lutto patologico
Lutto patologico (anormale)
Per alcune persone il decorso del lutto e del dolore è anomalo. Il lutto patologico può assumere diverse forme, che vanno da assenza o ritardo di insorgenza del lutto, a lutto eccessivamente intenso e prolungato e associato a propositi di suicidio o a sintomi francamente psicotici.
Sono a maggiore rischio di una reazione di lutto anomala coloro che soffrono per una morte improvvisa o avvenuta in circostanze orribili, le persone emarginate, quelle che ritengono di essere responsabili (reali o immaginari) della morte, quelle con una storia di perdite traumatiche e quelle con una relazione di dipendenza o intensamente ambivalente con la persona scomparsa.
Alcune relazioni, indipendentemente dalle apparenze in pubblico, sono abbastanza negative da ridurre o annullare una risposta normale e appropriata al lutto. In quei casi, le conseguenze della morte di un coniuge o di un parente possono essere nettamente positive per il superstite.
Altre forme anomale di lutto si manifestano quando alcuni aspetti della normale afflizione sono distorti o intensificati fino a raggiungere proporzioni psicotiche. È normale identificarsi con la persona deceduta, come assumere determinati aspetti o avere cari determinati beni in suo possesso; non è normale credere di essere il deceduto o soffrire esattamente di ciò di cui la persona scomparsa è morta (se, di fatto, ciò non è vero).
Udire una voce fuggevole e passeggera della persona deceduta è normale, allucinazioni uditive complesse, persistenti e invadenti non lo sono. La negazione di determinati aspetti della morte è normale; credere che la persona morta sia ancora viva è anormale.
Lutto rispetto a depressione
Lutto e depressione condividono molte caratteristiche: tristezza, tendenza a piangere, inappetenza, insonnia, diminuzione di interesse per il mondo. Vi sono tuttavia sufficienti differenze che permettono agli psichiatri di differenziare queste sindromi.
Il disturbo dell'umore nella depressione è tipicamente pervasivo e non remittente. Se vi sono fluttuazioni dell'umore, sono relativamente minori. Le fluttuazioni nel lutto sono comuni. Le persone spesso descrivono il lutto come una sensazione che si presenta a ondate, che li travolge e poi si ritira. Anche nel lutto intenso, sono possibili momenti in cui il soggetto si sente sollevato e riesce a ricordare cose liete.
La vergogna e la colpa sono comuni nella depressione. Quando si manifestano nel lutto, ciò avviene di solito perché la persona ritiene di non aver fatto abbastanza per la persona deceduta prima della sua morte e non a causa dell'idea fondamentale dell'individuo di essere malvagio o indegno, come comunemente avviene nella depressione.
Di grande importanza è il fatto che il lutto è limitato nel tempo. Molte persone che soffrono di depressione maggiore (depressione grave) sono disperate: non riescono neppure a immaginare di poter stare meglio.
Le persone che in precedenza sono state depresse sono a rischio di diventare depresse nel momento di una perdita importante; perciò, la storia clinica di un individuo in lutto può essere utile per valutare una reazione in atto.
I soggetti depressi minacciano di suicidarsi più spesso delle persone in lutto, che, tranne in casi particolari - ad esempio, persone anziane e dipendenti dal punto di vista fisico - non desiderano realmente morire, anche se affermano che la vita è insopportabile.
È compito del medico individuare quando il lutto è divenuto patologico e si è evoluto in una sindrome depressiva maggiore.
Il lutto è una condizione normale, sebbene profondamente penosa, che risponde al sostegno, all'empatia e al trascorrere del tempo.
Il disturbo depressivo maggiore è potenzialmente un'emergenza medica che richiede intervento immediato per impedire complicazioni come il suicidio.
Lutto patologico (anormale)
Per alcune persone il decorso del lutto e del dolore è anomalo. Il lutto patologico può assumere diverse forme, che vanno da assenza o ritardo di insorgenza del lutto, a lutto eccessivamente intenso e prolungato e associato a propositi di suicidio o a sintomi francamente psicotici.
Sono a maggiore rischio di una reazione di lutto anomala coloro che soffrono per una morte improvvisa o avvenuta in circostanze orribili, le persone emarginate, quelle che ritengono di essere responsabili (reali o immaginari) della morte, quelle con una storia di perdite traumatiche e quelle con una relazione di dipendenza o intensamente ambivalente con la persona scomparsa.
Alcune relazioni, indipendentemente dalle apparenze in pubblico, sono abbastanza negative da ridurre o annullare una risposta normale e appropriata al lutto. In quei casi, le conseguenze della morte di un coniuge o di un parente possono essere nettamente positive per il superstite.
Altre forme anomale di lutto si manifestano quando alcuni aspetti della normale afflizione sono distorti o intensificati fino a raggiungere proporzioni psicotiche. È normale identificarsi con la persona deceduta, come assumere determinati aspetti o avere cari determinati beni in suo possesso; non è normale credere di essere il deceduto o soffrire esattamente di ciò di cui la persona scomparsa è morta (se, di fatto, ciò non è vero).
Udire una voce fuggevole e passeggera della persona deceduta è normale, allucinazioni uditive complesse, persistenti e invadenti non lo sono. La negazione di determinati aspetti della morte è normale; credere che la persona morta sia ancora viva è anormale.
Lutto rispetto a depressione
Lutto e depressione condividono molte caratteristiche: tristezza, tendenza a piangere, inappetenza, insonnia, diminuzione di interesse per il mondo. Vi sono tuttavia sufficienti differenze che permettono agli psichiatri di differenziare queste sindromi.
Il disturbo dell'umore nella depressione è tipicamente pervasivo e non remittente. Se vi sono fluttuazioni dell'umore, sono relativamente minori. Le fluttuazioni nel lutto sono comuni. Le persone spesso descrivono il lutto come una sensazione che si presenta a ondate, che li travolge e poi si ritira. Anche nel lutto intenso, sono possibili momenti in cui il soggetto si sente sollevato e riesce a ricordare cose liete.
La vergogna e la colpa sono comuni nella depressione. Quando si manifestano nel lutto, ciò avviene di solito perché la persona ritiene di non aver fatto abbastanza per la persona deceduta prima della sua morte e non a causa dell'idea fondamentale dell'individuo di essere malvagio o indegno, come comunemente avviene nella depressione.
Di grande importanza è il fatto che il lutto è limitato nel tempo. Molte persone che soffrono di depressione maggiore (depressione grave) sono disperate: non riescono neppure a immaginare di poter stare meglio.
Le persone che in precedenza sono state depresse sono a rischio di diventare depresse nel momento di una perdita importante; perciò, la storia clinica di un individuo in lutto può essere utile per valutare una reazione in atto.
I soggetti depressi minacciano di suicidarsi più spesso delle persone in lutto, che, tranne in casi particolari - ad esempio, persone anziane e dipendenti dal punto di vista fisico - non desiderano realmente morire, anche se affermano che la vita è insopportabile.
È compito del medico individuare quando il lutto è divenuto patologico e si è evoluto in una sindrome depressiva maggiore.
Il lutto è una condizione normale, sebbene profondamente penosa, che risponde al sostegno, all'empatia e al trascorrere del tempo.
Il disturbo depressivo maggiore è potenzialmente un'emergenza medica che richiede intervento immediato per impedire complicazioni come il suicidio.
mercoledì 21 novembre 2018
Istruzioni per l'uso del cervello
Istruzioni per l'uso del cervello, di John Medina
" Lo abbiamo tutti, ma usarlo al meglio è da pochi. Per questo il titolo del volume di John Medina, biologo molecolare specializzata e professore di bioingegneria alla University of Washington School of Medicine, è ironico, ma corretto nella sostanza. L'assunto è che le neuroscienze abbiano ormai acquisito una massa di conoscenze di cui però non teniamo conto nella nostra vita di tutti i giorni.
L'abilità di Medina sta nel dare a quei risultati una forma di racconto che si intreccia a esempi tratti dalla vita di tutti i giorni: letture, cose viste in televisione. casi clinici o rifles sioni personali per arrivare a suggerire pratiche, tecniche, stili di vita che aiutino a vivere meglio, in maniera più pro duttiva e creativa. Non si tratta tuttavia del solito manuale superficiale, ma di un lodevole sforzo di appassionare ognuno di noi alle ricerche relative al cervello e ai comportamenti umani.
Per citare qualche esempio, tutti sap piamo quanto sia importante l'esercizio fisico non solo per mantenersi in salute, ma anche per recuperarla dopo un periodo di inattività. Medina è talmen te convito di questo da suggerire tapis roulant dentro gli uffici, per alternare le ore di sedentarietà davanti al computer a momenti in cui rimettiamo in moto il corpo. Stando alla sperimentazione di laboratorio, se dovessimo metterne in pratica i risultati sarebbe più van taggioso svolgere riunioni camminan do su tapis roulant che seduti attorno a un tavolo.
Pensare che i peripatetici avevano già capito, parecchio tempo fa, che si ragiona meglio camminando.
Ancora, evitiamo lunghe presentazioni in PowerPoint. Non solo non catturano l'attenzione, ma possono addirittura an noiare, rischiando di ottenere l'effetto contrario rispetto a ciò che vogliamo comunicare al nostro pubblico.
«Abbiamo creato ambienti di lavoro stressanti - afferma Medina - benché un cervello stressato sia notevolmente meno produttivo. Le nostre scuole sono concepite in modo che la maggior parte dell'effettivo apprendimento debba av venire a casa. Tutto ciò sarebbe comico, se non fosse così dannoso. La respon sabilità sta nel fatto che raramente gli scienziati che studiano il cervello dialogano con insegnanti e professionisti del mondo del lavoro, con educatori e ragionieri, con autorità scolastiche e am ministratori delegati alle aziende».
Come dargli torto? Uno dei motivi, forse la ragione principale dell'esplosione e del successo delle tematiche relati ve alla mente e al cervello nei giornali e nell'editoria in generale, viene proprio dalla necessità impellente che ognuno di noi avverte di sapere che cosa possiamo tradurre in pratica delle scoperte dei ricercatori.
In questo volume Medina pas sa in rassegna dodici aspetti relativi al funzionamento del cervello, che vanno dall'esercizio fisico come potenziamento del cervello a come quest'ultimo si è evoluto, alle cose noiose che uccidono l'attenzione, alle regole per ricordare e memorizzare, alle differenze tra cervello femminile e maschile. E molto altro.
Il pregio maggiore del libro è di rendere fruibile una serie di conoscenze teoriche, espresse nella forma pratica dell'uso quotidiano che ognuno di noi ne può fare. Quando si parla di attività fisica e prestazioni cognitive, oppure di giusta quantità di sonno o, ancora, di come evitare la noia nelle presentazioni di lavoro, ognuno di noi è inevitabilmente coinvolto, nonché interessato.
E le ricerche sul cervello escono dai la boratori e dai monitor della risonanza magnetica funzionale per entrare nella nostra quotidianità."
recensione di Pierangelo Garzia, Mente e Cervello
IL CERVELLO. ISTRUZIONI PER L'USO
di John Medìna
Bollati Boringhieri, Torino, 2010,
pp. 320 (euro 22,00)
" Lo abbiamo tutti, ma usarlo al meglio è da pochi. Per questo il titolo del volume di John Medina, biologo molecolare specializzata e professore di bioingegneria alla University of Washington School of Medicine, è ironico, ma corretto nella sostanza. L'assunto è che le neuroscienze abbiano ormai acquisito una massa di conoscenze di cui però non teniamo conto nella nostra vita di tutti i giorni.
L'abilità di Medina sta nel dare a quei risultati una forma di racconto che si intreccia a esempi tratti dalla vita di tutti i giorni: letture, cose viste in televisione. casi clinici o rifles sioni personali per arrivare a suggerire pratiche, tecniche, stili di vita che aiutino a vivere meglio, in maniera più pro duttiva e creativa. Non si tratta tuttavia del solito manuale superficiale, ma di un lodevole sforzo di appassionare ognuno di noi alle ricerche relative al cervello e ai comportamenti umani.
Per citare qualche esempio, tutti sap piamo quanto sia importante l'esercizio fisico non solo per mantenersi in salute, ma anche per recuperarla dopo un periodo di inattività. Medina è talmen te convito di questo da suggerire tapis roulant dentro gli uffici, per alternare le ore di sedentarietà davanti al computer a momenti in cui rimettiamo in moto il corpo. Stando alla sperimentazione di laboratorio, se dovessimo metterne in pratica i risultati sarebbe più van taggioso svolgere riunioni camminan do su tapis roulant che seduti attorno a un tavolo.
Pensare che i peripatetici avevano già capito, parecchio tempo fa, che si ragiona meglio camminando.
Ancora, evitiamo lunghe presentazioni in PowerPoint. Non solo non catturano l'attenzione, ma possono addirittura an noiare, rischiando di ottenere l'effetto contrario rispetto a ciò che vogliamo comunicare al nostro pubblico.
«Abbiamo creato ambienti di lavoro stressanti - afferma Medina - benché un cervello stressato sia notevolmente meno produttivo. Le nostre scuole sono concepite in modo che la maggior parte dell'effettivo apprendimento debba av venire a casa. Tutto ciò sarebbe comico, se non fosse così dannoso. La respon sabilità sta nel fatto che raramente gli scienziati che studiano il cervello dialogano con insegnanti e professionisti del mondo del lavoro, con educatori e ragionieri, con autorità scolastiche e am ministratori delegati alle aziende».
Come dargli torto? Uno dei motivi, forse la ragione principale dell'esplosione e del successo delle tematiche relati ve alla mente e al cervello nei giornali e nell'editoria in generale, viene proprio dalla necessità impellente che ognuno di noi avverte di sapere che cosa possiamo tradurre in pratica delle scoperte dei ricercatori.
In questo volume Medina pas sa in rassegna dodici aspetti relativi al funzionamento del cervello, che vanno dall'esercizio fisico come potenziamento del cervello a come quest'ultimo si è evoluto, alle cose noiose che uccidono l'attenzione, alle regole per ricordare e memorizzare, alle differenze tra cervello femminile e maschile. E molto altro.
Il pregio maggiore del libro è di rendere fruibile una serie di conoscenze teoriche, espresse nella forma pratica dell'uso quotidiano che ognuno di noi ne può fare. Quando si parla di attività fisica e prestazioni cognitive, oppure di giusta quantità di sonno o, ancora, di come evitare la noia nelle presentazioni di lavoro, ognuno di noi è inevitabilmente coinvolto, nonché interessato.
E le ricerche sul cervello escono dai la boratori e dai monitor della risonanza magnetica funzionale per entrare nella nostra quotidianità."
recensione di Pierangelo Garzia, Mente e Cervello
IL CERVELLO. ISTRUZIONI PER L'USO
di John Medìna
Bollati Boringhieri, Torino, 2010,
pp. 320 (euro 22,00)
martedì 20 novembre 2018
Body Snatchers (la Sindrome di Capgras al cinema)
Body Snatchers (Invasione degli ultracorpi)
Film cult del cinema di fantascienza 'L’invasione degli ultracorpi' descrive perfettamente la sindrome di Capgras.
In psichiatria clinica c'è un raro tipo di patologia, nota appunto come sindrome di Capgras, che descrive esattamente questo genere di situazioni. Le persone afflitte da questa sindrome si consumano in un tipo di paranoia in cui credono che amici o familiari intorno a loro siano in realtà degli impostori (sosia).
Parte dell'orrore di questi film dipende proprio dalla loro ossessione per il tema del doppio: l'idea che una persona buona possa venire trasformata in un alter ego o in un Doppelganger dalla natura inesorabilmente cattiva. I protagonisti devono quindi assumere un atteggiamento ultravigile nei confronti di tutti i loro soliti amici e le loro abituali conoscenze per distinguere di quali di essi ci si possa fidare e quali debbano venire distrutti.
Le scene di apertura mostrano il dottor Hill che ha in cura un delirante Miles Bennel, il quale racconta una storia che trasforma il film originale in un unico, lungo flashback. Quando alla fine del film ritorniamo alla scena iniziale, lo psichiatra decide che Bennel è matto. Tuttavia quando sentono un altro paziente parlare degli strani baccelli che cadevano da un camion rovesciato, si rende conto che McCarthy sta dicendo la verità.
L'invasione degli ultracorpi doveva finire con Miles Bennel che correva su e giù per l'autostrada gridando "sono arrivati! ", mentre le auto gli sfrecciano accanto ignorandolo. L'ultima inquadratura doveva essere un primo piano in cui egli, guardando direttamente nella cinepresa, ammoniva il pubblico: "Tu sei il prossimo!".
I dirigenti della Allied Artists respinsero le intenzioni del regista Siegel, e decisero di aggiungere delle scene all'inizio e alla fine per suggerire che gli invasori non avessero avuto completamente successo nell'invadere il pianeta. Il dottor Hill passa all'azione e chiede sicuro alla polizia di chiamare l'FBI.
Gli studiosi di cinema hanno identificato la prima versione degli Invasori spaziali e diversi altri film americani degli anni cinquanta con la politica reazionaria dell'epoca maccartista. Anche quella dell'Invasione degli ultracorpi, l'esempio più spesso citato di questa tendenza, può essere considerata sia dal punto di vista politico sia kleiniano. La convinzione che i comunisti potessero e stessero per proiettarsi in una persona amata per trasformarla nottetempo in una creatura ostile e priva di anima, trova le sue metafore nelle stesse convinzioni fantascientifiche che toccavano le angosce infantili ipotizzate dalla Klein.
I protagonisti di tutti questi film si trovano davanti a un dilemma analogo: non possono essere sicuri che i membri della loro famiglia, i colleghi e le persone amate siano chi dicono di essere. Ne L'invasione degli ultracorpi non ci si può fidare di nessuno, perché corpi familiari sono stati trasformati in persone - cloni. Non si può contare né sulla polizia né sullo psichiatra del film perché entrambi sono divenuti dei "loro".
Film cult del cinema di fantascienza 'L’invasione degli ultracorpi' descrive perfettamente la sindrome di Capgras.
In psichiatria clinica c'è un raro tipo di patologia, nota appunto come sindrome di Capgras, che descrive esattamente questo genere di situazioni. Le persone afflitte da questa sindrome si consumano in un tipo di paranoia in cui credono che amici o familiari intorno a loro siano in realtà degli impostori (sosia).
Parte dell'orrore di questi film dipende proprio dalla loro ossessione per il tema del doppio: l'idea che una persona buona possa venire trasformata in un alter ego o in un Doppelganger dalla natura inesorabilmente cattiva. I protagonisti devono quindi assumere un atteggiamento ultravigile nei confronti di tutti i loro soliti amici e le loro abituali conoscenze per distinguere di quali di essi ci si possa fidare e quali debbano venire distrutti.
Le scene di apertura mostrano il dottor Hill che ha in cura un delirante Miles Bennel, il quale racconta una storia che trasforma il film originale in un unico, lungo flashback. Quando alla fine del film ritorniamo alla scena iniziale, lo psichiatra decide che Bennel è matto. Tuttavia quando sentono un altro paziente parlare degli strani baccelli che cadevano da un camion rovesciato, si rende conto che McCarthy sta dicendo la verità.
L'invasione degli ultracorpi doveva finire con Miles Bennel che correva su e giù per l'autostrada gridando "sono arrivati! ", mentre le auto gli sfrecciano accanto ignorandolo. L'ultima inquadratura doveva essere un primo piano in cui egli, guardando direttamente nella cinepresa, ammoniva il pubblico: "Tu sei il prossimo!".
I dirigenti della Allied Artists respinsero le intenzioni del regista Siegel, e decisero di aggiungere delle scene all'inizio e alla fine per suggerire che gli invasori non avessero avuto completamente successo nell'invadere il pianeta. Il dottor Hill passa all'azione e chiede sicuro alla polizia di chiamare l'FBI.
Gli studiosi di cinema hanno identificato la prima versione degli Invasori spaziali e diversi altri film americani degli anni cinquanta con la politica reazionaria dell'epoca maccartista. Anche quella dell'Invasione degli ultracorpi, l'esempio più spesso citato di questa tendenza, può essere considerata sia dal punto di vista politico sia kleiniano. La convinzione che i comunisti potessero e stessero per proiettarsi in una persona amata per trasformarla nottetempo in una creatura ostile e priva di anima, trova le sue metafore nelle stesse convinzioni fantascientifiche che toccavano le angosce infantili ipotizzate dalla Klein.
I protagonisti di tutti questi film si trovano davanti a un dilemma analogo: non possono essere sicuri che i membri della loro famiglia, i colleghi e le persone amate siano chi dicono di essere. Ne L'invasione degli ultracorpi non ci si può fidare di nessuno, perché corpi familiari sono stati trasformati in persone - cloni. Non si può contare né sulla polizia né sullo psichiatra del film perché entrambi sono divenuti dei "loro".
venerdì 16 novembre 2018
Eugenio Borgna nei luoghi della Follia
Borgna, i luoghi della follia
Nei luoghi perduti della follia, di Eugenio Borgna
La capacità di Eugenio Borgna di suscitare intricate tessiture di significati intorno al nucleo inafferrabile di un enigma, di un'avventura esistenziale, di un'esperienza di dolore o di sofferenza, di angoscia o di follia, circoscrive la cifra più peculiare del suo lavoro attuale e del lungo cammino che lo ha condotto alle odierne posizioni.
Quanto Borgna ci ha restituito in questi ultimi anni ha alle sue spalle un percorso e un'avventura di oltre quarant'anni, fatti di lezioni universitarie, seminari, conferenze, e poi ancora relazioni a convegni, articoli specialistici, saggi destinati a libri e riviste, interventi di ricerca o di battaglia.
Solo una parte di questo immenso lavoro è confluita, a partire dalla fine degli anni ottanta, nei libri con cui si è segnalato all'attenzione di un pubblico sempre più numeroso.
Questa serie di libri è solo l'estratto di un'opera caratterizzata dal suo sforzo martellante di approfondimento, di ridefinizione, di verifica, di interrogazione.
Un patrimonio che rischiava di restare consegnato alle biblioteche e agli archivi di riviste specialistiche e di periodici di argomento psichiatrico, psicologico, medico, talvolta filosofico o teologico.
Nei luoghi perduti della follia di Eugenio Borgna
Autore: Eugenio Borgna
Editore: Feltrinelli
Collana: Campi del sapere
Pagine: 520
ISBN: 8807104288
Data pubblicazione: Apr 2008
Nei luoghi perduti della follia, di Eugenio Borgna
La capacità di Eugenio Borgna di suscitare intricate tessiture di significati intorno al nucleo inafferrabile di un enigma, di un'avventura esistenziale, di un'esperienza di dolore o di sofferenza, di angoscia o di follia, circoscrive la cifra più peculiare del suo lavoro attuale e del lungo cammino che lo ha condotto alle odierne posizioni.
Quanto Borgna ci ha restituito in questi ultimi anni ha alle sue spalle un percorso e un'avventura di oltre quarant'anni, fatti di lezioni universitarie, seminari, conferenze, e poi ancora relazioni a convegni, articoli specialistici, saggi destinati a libri e riviste, interventi di ricerca o di battaglia.
Solo una parte di questo immenso lavoro è confluita, a partire dalla fine degli anni ottanta, nei libri con cui si è segnalato all'attenzione di un pubblico sempre più numeroso.
Questa serie di libri è solo l'estratto di un'opera caratterizzata dal suo sforzo martellante di approfondimento, di ridefinizione, di verifica, di interrogazione.
Un patrimonio che rischiava di restare consegnato alle biblioteche e agli archivi di riviste specialistiche e di periodici di argomento psichiatrico, psicologico, medico, talvolta filosofico o teologico.
Nei luoghi perduti della follia di Eugenio Borgna
Autore: Eugenio Borgna
Editore: Feltrinelli
Collana: Campi del sapere
Pagine: 520
ISBN: 8807104288
Data pubblicazione: Apr 2008
giovedì 15 novembre 2018
Distimia (Depressione minore, cronica)
Si definisce distimia un disturbo depressivo cronico, caratterizzato da tristezza accompagnata da sintomi quali scarso appetito, insonnia, affaticabilità, bassa autostima, scarsa concentrazione, sentimenti di autosvalutazione.
Dr. Francesco Giubbolini Psicoterapeuta a Siena
(Leggi anche la pagina del sito su: Depressione maggiore, Minore e Distimia)
La Distimia
(Leggi anche la pagina del sito su: Depressione maggiore, Minore e Distimia)
La Distimia
Questa forma di disturbo dell'umore ricorda in qualche misura la depressione maggiore, ma si presenta in una forma generalmente più attenuata e meggiormente protratta nel tempo.
Un episodio depressivo grave ha spesso durata breve ma è altamente invalidante, il paziente subisce una sorta di arresto e non riesce più a vivere la quotidianità, nella distimia il disagio è meno grave ma persistente.
È la più frequente tra le depressioni minori, cioè tra tutti quegli episodi depressivi meno gravi, caratterizzati da minore compromissione delle relazioni sociali e dell'attività lavorativa.
La distimia si presenta con disturbi lievi ma con andamento cronico; si diagnostica quando sono presenti almeno due dei sintomi classici e che si protraggono almeno da uno o due anni.
Tipico della distimia, non grave di per sé, è il presentarsi associata ad altre psicopatologie (comorbidità) come la depressione maggiore, l'ansia, l'abuso di sostanze, i disturbi alimentari, i disturbi di personalità.
Clinicamente la distimia è una condizione caratterizzata dal tono dell'umore cronicamente depresso.
Rappresenta da sola il 25-35% di tutte le forme depressive con una prevcalenza nella popolazione generale intorno al 3-6%.
E' una forma di depressione talora difficile da riconoscere e quindi da curare, perché si tende a confondere il tratto depressivo con un generico disturbo di personalità oppure con un aspetto di 'costuituzione' o di 'carattere'.
Spesso giungono all'osservazione del medico di medicina generale pazienti effetti da distimia in forme più o meno riconoscibili, e non sempre la diagnosi di distimia veine correttamente posta.
Come curare la distimia
il trattamento di elezione di tale affezione, in virtù della stabilità della condizione psicopatologica e della commistione con aspetti di caratterialità, è la psicoterapia.
Alla psicoterapia possono essere associati trattamenti psicofarmacologici quando la sintomatologia clinica si rende più invalidante, ed in tutte quelle occasioni, non rare, nelle quali si rende evidente il 'viraggio' verso un episodio depressivo maggiore, complicazione frequente dei quadri distimici.
martedì 13 novembre 2018
Timidezza e Fobia Sociale
Timidezza e fobia sociale (FS)
La distinzione tra ansia sociale fisiologica e patologica rappresenta un problema complesso di difficile soluzione ed anche i rapporti tra Fobia Sociale (FS) e timidezza non sono chiari; è verosimile che esista un certo grado di sovrapposizione e la possibilità che i vari termini descrivano diverse gradazioni della medesima condizione.
Barlow, a questo proposito, afferma che: «Le difficoltà di performance in una determinata situazione non hanno niente a che vedere con la timidezza o con le difficoltà generali di socializzazione».
Allo stesso modo, Marks ha osservato che le casistiche cliniche dei fobici sociali sono composte sia da individui i cui sintomi sono relativamente "puri" ed isolati, che da pazienti con vari gradi di difficoltà di socializzazione.
Nel DSM è implicita l'idea che questi problemi siano relativamente indipendenti tra loro, anche se parzialmente sovrapposti.
La prevalenza della Fobia Sociale nella popolazione generale oscilla dal 2% al l3%, mentre la timidezza appare di gran lunga più comune.
Il dato più interessante appare tuttavia quello relativo al fatto che, in almeno il 30% dei soggetti, la timidezza comporta un certo grado di sofferenza soggettiva e di disadattamento sociale, interpersonale e lavorativo.
Questa osservazione pone da un lato il problema delle difficoltà di delimitazione diagnostica della Fobia, dall'altro quello della validità degli attuali dati epidemiologici.
Infatti, è verosimile che l'entità delle condotte evitanti e fobico-sociali sia sottostimata dalle interviste fondate esclusivamente sull'esplorazione della paura e dell'evitamento in un numero limitato di situazioni specifiche.
Comportamenti evitanti più sfumati tendono infatti a sfuggire ad una corretta individuazione, in quanto spesso non sono vissuti come patologici, ma sopportati, sia dal paziente che dalle persone che lo circondano, mediante un adattamento dello stile di vita.
Alcuni elementi sembrano distinguere la timidezza dalla FS. Quest'ultima è caratterizzata da una maggiore interferenza sull'adattamento sociale ed appare come una condizione cronica, meno suscettibile di remissioni nel tempo.
Inoltre, i fobici sociali tendono ad avere più condotte di evitamento.
l dati epidemiologici e clinici suggeriscono che non tutte le persone timide possono essere definite fobiche sociali e viceversa non è chiaro se tutti i fobici sociali possano essere considerati timidi; nell'esperienza clinica, infatti, alcuni pazienti con FS non lamentano disagio interpersonale al di fuori delle situazioni specifiche temute.
Ad esempio, alcuni pazienti mostrano condotte fobiche nell'interazione con individui dell'altro sesso, mentre sono completamente a loro agio al di fuori di questo contesto.
Queste osservazioni sembrano indicare la non completa sovrapposizione tra FS e timidezza. Quest'ultima non sembra essere una condizione sufficiente per l'instaurarsi della FS ma potrebbe rappresentare un attributo temperamentale in grado di sottendere una maggiore suscettibilità a varie manifestazioni depressive e fobico-ansiose in situazioni di stress.
La distinzione tra ansia sociale fisiologica e patologica rappresenta un problema complesso di difficile soluzione ed anche i rapporti tra Fobia Sociale (FS) e timidezza non sono chiari; è verosimile che esista un certo grado di sovrapposizione e la possibilità che i vari termini descrivano diverse gradazioni della medesima condizione.
Barlow, a questo proposito, afferma che: «Le difficoltà di performance in una determinata situazione non hanno niente a che vedere con la timidezza o con le difficoltà generali di socializzazione».
Allo stesso modo, Marks ha osservato che le casistiche cliniche dei fobici sociali sono composte sia da individui i cui sintomi sono relativamente "puri" ed isolati, che da pazienti con vari gradi di difficoltà di socializzazione.
Nel DSM è implicita l'idea che questi problemi siano relativamente indipendenti tra loro, anche se parzialmente sovrapposti.
La prevalenza della Fobia Sociale nella popolazione generale oscilla dal 2% al l3%, mentre la timidezza appare di gran lunga più comune.
Il dato più interessante appare tuttavia quello relativo al fatto che, in almeno il 30% dei soggetti, la timidezza comporta un certo grado di sofferenza soggettiva e di disadattamento sociale, interpersonale e lavorativo.
Questa osservazione pone da un lato il problema delle difficoltà di delimitazione diagnostica della Fobia, dall'altro quello della validità degli attuali dati epidemiologici.
Infatti, è verosimile che l'entità delle condotte evitanti e fobico-sociali sia sottostimata dalle interviste fondate esclusivamente sull'esplorazione della paura e dell'evitamento in un numero limitato di situazioni specifiche.
Comportamenti evitanti più sfumati tendono infatti a sfuggire ad una corretta individuazione, in quanto spesso non sono vissuti come patologici, ma sopportati, sia dal paziente che dalle persone che lo circondano, mediante un adattamento dello stile di vita.
Alcuni elementi sembrano distinguere la timidezza dalla FS. Quest'ultima è caratterizzata da una maggiore interferenza sull'adattamento sociale ed appare come una condizione cronica, meno suscettibile di remissioni nel tempo.
Inoltre, i fobici sociali tendono ad avere più condotte di evitamento.
l dati epidemiologici e clinici suggeriscono che non tutte le persone timide possono essere definite fobiche sociali e viceversa non è chiaro se tutti i fobici sociali possano essere considerati timidi; nell'esperienza clinica, infatti, alcuni pazienti con FS non lamentano disagio interpersonale al di fuori delle situazioni specifiche temute.
Ad esempio, alcuni pazienti mostrano condotte fobiche nell'interazione con individui dell'altro sesso, mentre sono completamente a loro agio al di fuori di questo contesto.
Queste osservazioni sembrano indicare la non completa sovrapposizione tra FS e timidezza. Quest'ultima non sembra essere una condizione sufficiente per l'instaurarsi della FS ma potrebbe rappresentare un attributo temperamentale in grado di sottendere una maggiore suscettibilità a varie manifestazioni depressive e fobico-ansiose in situazioni di stress.
domenica 11 novembre 2018
Cosa si intende per 'Autostima'
Sull'autostima
L'azione di valutare sé stessi come insieme di determinate caratteristiche, nonché il giudizio risultante da questa valutazione (che viene fatta sulla base di criteri ottenuti dal confronto delle proprie caratteristiche con quelle di altri individui) è ciò che comunemente si definisce autostima.
William James l'ha definita come il rapporto tra il Sé percepito di una persona e il suo Sé ideale.
Il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle caratteristiche, capacità, abilità, qualità che costituiscono il nostro bagaglio personale; il Sé ideale è l'immagine del tipo di persona che vorremmo essere.
Secondo James una persona il cui Sé percepito è molto diverso dal Sé ideale, inevitabilmente sperimenterà una bassa auto-stima.
L'ampiezza della differenza tra come ci percepiamo e come vorremmo essere è infatti un indicatore importante del grado di soddisfazione che proviamo riguardo a noi stessi.
L'autostima si compone di diverse componenti, che insieme contribuiscono a creare un'immagine positiva di sé, utile per affrontare le sfide e le situazioni che la vita ci pone di fronte.
Per esempio, l'amore e l'apprezzamento per se stessi, la sensazione di adeguatezza, la convinzione che non è necessario essere perfetti, l'attitudine a guardare il futuro in maniera efficace.
Come fenomeno intrapsichico, il giudizio di autostima è un sentimento associato all'osservazione delle proprie caratteristiche, e può andare dall'assoluto apprezzamento all'assoluto disprezzo.
Dal punto di vista psicodinamico, l'autostima si spiega come un appoggio di natura narcisistica che l'Io riceve dal Super-io.
Usualmente viene meno negli stati di depressione in cui l'individuo disprezza e svaluta se stesso, mentre aumenta negli stati maniacali dove si ha una sorta di 'ipertrofia' rispetto al mondo circostante.
L'autovalutazione può dunque esprimersi come sopravvalutazione o come autosvalutazione o sottovalutazione per un'errata considerazione che ciascuno può avere di se stesso rispetto agli altri o alla situazione in cui di volta in volta si trova a vivere.
L'azione di valutare sé stessi come insieme di determinate caratteristiche, nonché il giudizio risultante da questa valutazione (che viene fatta sulla base di criteri ottenuti dal confronto delle proprie caratteristiche con quelle di altri individui) è ciò che comunemente si definisce autostima.
William James l'ha definita come il rapporto tra il Sé percepito di una persona e il suo Sé ideale.
Il Sé percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle caratteristiche, capacità, abilità, qualità che costituiscono il nostro bagaglio personale; il Sé ideale è l'immagine del tipo di persona che vorremmo essere.
Secondo James una persona il cui Sé percepito è molto diverso dal Sé ideale, inevitabilmente sperimenterà una bassa auto-stima.
L'ampiezza della differenza tra come ci percepiamo e come vorremmo essere è infatti un indicatore importante del grado di soddisfazione che proviamo riguardo a noi stessi.
L'autostima si compone di diverse componenti, che insieme contribuiscono a creare un'immagine positiva di sé, utile per affrontare le sfide e le situazioni che la vita ci pone di fronte.
Per esempio, l'amore e l'apprezzamento per se stessi, la sensazione di adeguatezza, la convinzione che non è necessario essere perfetti, l'attitudine a guardare il futuro in maniera efficace.
Come fenomeno intrapsichico, il giudizio di autostima è un sentimento associato all'osservazione delle proprie caratteristiche, e può andare dall'assoluto apprezzamento all'assoluto disprezzo.
Dal punto di vista psicodinamico, l'autostima si spiega come un appoggio di natura narcisistica che l'Io riceve dal Super-io.
Usualmente viene meno negli stati di depressione in cui l'individuo disprezza e svaluta se stesso, mentre aumenta negli stati maniacali dove si ha una sorta di 'ipertrofia' rispetto al mondo circostante.
L'autovalutazione può dunque esprimersi come sopravvalutazione o come autosvalutazione o sottovalutazione per un'errata considerazione che ciascuno può avere di se stesso rispetto agli altri o alla situazione in cui di volta in volta si trova a vivere.
domenica 4 novembre 2018
Ipomania farmaco-indotta da antidepressivi
Antidepressivi ed episodi maniacali
Ansia, agitazione, attacchi di panico, insonnia, irritabilità, ostilità, impulsività, irrequietezza grave, ipomania e mania sono stati riscontrati in pazienti trattati con antidepressivi per il disordine di depressione maggiore, ma anche per altre diagnosi.
(Leggi anche la pagina del sito sulla disturbo bipolare, mania ed ipomania)
Gli antidepressivi sono ritenuti, secondo l'FDA, l'organismo di controllo federale USA sui farmaci in grado di indurre episodi maniacali.(http://www.fda.gov/AntidepressanstPHA.htm)
Il problema è quello che viene definito di ipomania farmacoindotta:
Per ipomania farmacoindotta si intende un quadro psicopatologico caratterizzato da elevazione del tono dell’umore ed altri sintomi ipomaniacali determinato da un agente farmacologico. Un quadro ipomaniacale di tal genere deve essere temporalmente in relazione con l’impiego di farmaci quali gli antidepressivi.
Sia sul piano clinico che nosografico, l’ipomania farmacoindotta costituisce una questione aperta.
Uno è il punto principale non definitivamente chiarito su cui si è accentrata l’attenzione dei ricercatori negli ultimi anni e che tuttavia appare ancora oggetto di discussione: ovvero se si tratti di una condizione peculiare in cui il farmaco è a tutti gli effetti l’elemento causale ovvero se si tratti di un quadro di ipomania in cui il farmaco ha al massimo il ruolo di fattore scatenante.
Per ipomania farmacoindotta si intende dunque un quadro sintomatologico ipomaniacale il cui esordio è associato all’impiego di un farmaco, in genere un antidepressivo. Da un punto di vista sintomatologico non sembra vi siano differenze tra quadri ipomaniacali farmacoindotti e spontanei. L’unico aspetto differenziale rimane la relazione temporale tra assunzione del farmaco ed esordio della sintomatologia ipomaniacale.
Nel DSM l’ipomania farmacoindotta rientra tra i Disturbi dell’Umore Indotti da Sostanze: il Manuale specifica che i sintomi ipomaniacali devono comparire entro un mese dall’inizio dell’assunzione del farmaco senza indicare la durata minima che deve avere l’episodio di alterazione patologica dell’umore.
L’ipomania farmacoindotta configurerebbe una sindrome ipomaniacale il cui esordio è associato temporalmente all’inizio di un trattamento antidepressivo, e in questo caso il DSM prevede che non si possa ‘contare’ tale episodio per una diagnosi di disturbo bipolare.
Non è chiaro inoltre se l’ipomania farmacoindotta sia solo quella che regredisce con la sospensione del trattamento (o con la riduzione del dosaggio) oppure se si possa considerare tale anche quella che prosegue autonomamente, cioè indipendentemente dalla riduzione o dalla cessazione del farmaco.
Tutti i dibattiti sulla esistenza o meno dell’(ipo)mania farmacoindotta e sulla sua definizione diagnostica sono questioni solo apparentemente teoriche, poiché concernono un cruciale problema della psichiatria: è possibile indurre la bipolarità oppure la si può scatenare solo in chi è costituzionalmente predisposto? È naturalmente un punto nodale della ricerca in campo psichiatrico che investe la nosografia, la clinica e la terapia della maggior parte dei disturbi psichici.
Se la bipolarità è una condizione ‘acquisita’, indotta ad esempio da sostanze esogene, può interessare qualsiasi individuo in trattamento antidepressivo. In questo caso, si dovrebbe considerarla un possibile evento avverso di trattamenti molto diffusi di cui occorrerebbe conoscere meglio i fattori di rischio e i controprovvedimenti terapeutici. Nel caso invece in cui il farmaco avesse solo un ruolo scatenante di una condizione che richiede comunque una predisposizione ‘endogena’, questo comporterebbe il dover considerare affetto da disturbo bipolare l’individuo che presenti questa condizione con gli immediati provvedimenti terapeutici del caso.
Il dibattito rimane tuttora aperto, anche in considerazione del fatto che quadri ipomaniacali farmacoindotti (associati all’impiego di antidepressivi) sono segnalati in letteratura anche in altre condizioni psicopatologiche oltre alla depressione maggiore: sia in soggetti con diagnosi di distimia che in pazienti con disturbi d’ansia (fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di panico).
In conclusione, a proposito dell’ipomania farmacoindotta rimane da verificarne la consistenza clinica: si tratta di un indicatore di bipolarità o va considerato un effetto avverso da farmaci indipendente da una predisposizione allo sviluppo di disturbo bipolare e non indicativo di futura evoluzione verso un disturbo bipolare manifesto?
La risposta a tale quesito influenzerà in modo sostanziale la pratica clinica giornaliera e consentirà di trattare al meglio i nostri pazienti.
Al momento attuale è positivo che la ricerca stia spostando la propria attenzione allo studio anche delle ipomanie farmacoindotte in disturbi diversi da quelli dell’umore quali i disturbi d’ansia (nei quali, evidentemente, il dubbio di una 'bipolarità endogena' non si può assolutamente porre).
Ansia, agitazione, attacchi di panico, insonnia, irritabilità, ostilità, impulsività, irrequietezza grave, ipomania e mania sono stati riscontrati in pazienti trattati con antidepressivi per il disordine di depressione maggiore, ma anche per altre diagnosi.
(Leggi anche la pagina del sito sulla disturbo bipolare, mania ed ipomania)
Gli antidepressivi sono ritenuti, secondo l'FDA, l'organismo di controllo federale USA sui farmaci in grado di indurre episodi maniacali.(http://www.fda.gov/AntidepressanstPHA.htm)
Il problema è quello che viene definito di ipomania farmacoindotta:
Per ipomania farmacoindotta si intende un quadro psicopatologico caratterizzato da elevazione del tono dell’umore ed altri sintomi ipomaniacali determinato da un agente farmacologico. Un quadro ipomaniacale di tal genere deve essere temporalmente in relazione con l’impiego di farmaci quali gli antidepressivi.
Sia sul piano clinico che nosografico, l’ipomania farmacoindotta costituisce una questione aperta.
Uno è il punto principale non definitivamente chiarito su cui si è accentrata l’attenzione dei ricercatori negli ultimi anni e che tuttavia appare ancora oggetto di discussione: ovvero se si tratti di una condizione peculiare in cui il farmaco è a tutti gli effetti l’elemento causale ovvero se si tratti di un quadro di ipomania in cui il farmaco ha al massimo il ruolo di fattore scatenante.
Per ipomania farmacoindotta si intende dunque un quadro sintomatologico ipomaniacale il cui esordio è associato all’impiego di un farmaco, in genere un antidepressivo. Da un punto di vista sintomatologico non sembra vi siano differenze tra quadri ipomaniacali farmacoindotti e spontanei. L’unico aspetto differenziale rimane la relazione temporale tra assunzione del farmaco ed esordio della sintomatologia ipomaniacale.
Nel DSM l’ipomania farmacoindotta rientra tra i Disturbi dell’Umore Indotti da Sostanze: il Manuale specifica che i sintomi ipomaniacali devono comparire entro un mese dall’inizio dell’assunzione del farmaco senza indicare la durata minima che deve avere l’episodio di alterazione patologica dell’umore.
L’ipomania farmacoindotta configurerebbe una sindrome ipomaniacale il cui esordio è associato temporalmente all’inizio di un trattamento antidepressivo, e in questo caso il DSM prevede che non si possa ‘contare’ tale episodio per una diagnosi di disturbo bipolare.
Non è chiaro inoltre se l’ipomania farmacoindotta sia solo quella che regredisce con la sospensione del trattamento (o con la riduzione del dosaggio) oppure se si possa considerare tale anche quella che prosegue autonomamente, cioè indipendentemente dalla riduzione o dalla cessazione del farmaco.
Tutti i dibattiti sulla esistenza o meno dell’(ipo)mania farmacoindotta e sulla sua definizione diagnostica sono questioni solo apparentemente teoriche, poiché concernono un cruciale problema della psichiatria: è possibile indurre la bipolarità oppure la si può scatenare solo in chi è costituzionalmente predisposto? È naturalmente un punto nodale della ricerca in campo psichiatrico che investe la nosografia, la clinica e la terapia della maggior parte dei disturbi psichici.
Se la bipolarità è una condizione ‘acquisita’, indotta ad esempio da sostanze esogene, può interessare qualsiasi individuo in trattamento antidepressivo. In questo caso, si dovrebbe considerarla un possibile evento avverso di trattamenti molto diffusi di cui occorrerebbe conoscere meglio i fattori di rischio e i controprovvedimenti terapeutici. Nel caso invece in cui il farmaco avesse solo un ruolo scatenante di una condizione che richiede comunque una predisposizione ‘endogena’, questo comporterebbe il dover considerare affetto da disturbo bipolare l’individuo che presenti questa condizione con gli immediati provvedimenti terapeutici del caso.
Il dibattito rimane tuttora aperto, anche in considerazione del fatto che quadri ipomaniacali farmacoindotti (associati all’impiego di antidepressivi) sono segnalati in letteratura anche in altre condizioni psicopatologiche oltre alla depressione maggiore: sia in soggetti con diagnosi di distimia che in pazienti con disturbi d’ansia (fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di panico).
In conclusione, a proposito dell’ipomania farmacoindotta rimane da verificarne la consistenza clinica: si tratta di un indicatore di bipolarità o va considerato un effetto avverso da farmaci indipendente da una predisposizione allo sviluppo di disturbo bipolare e non indicativo di futura evoluzione verso un disturbo bipolare manifesto?
La risposta a tale quesito influenzerà in modo sostanziale la pratica clinica giornaliera e consentirà di trattare al meglio i nostri pazienti.
Al momento attuale è positivo che la ricerca stia spostando la propria attenzione allo studio anche delle ipomanie farmacoindotte in disturbi diversi da quelli dell’umore quali i disturbi d’ansia (nei quali, evidentemente, il dubbio di una 'bipolarità endogena' non si può assolutamente porre).
giovedì 1 novembre 2018
La storia di Anna O. - L'inizio della psicoanalisi
La storia di Anna O. Un libro 'datato' ma ancora di grande interesse per la storia della psicoanalisi.
Recensione del libro
"Lucy Freeman, autrice di numerosi volumi, ha da sempre dedicato al suo interesse principale, la psicoanalisi e la psichiatria, grandissima parte del suo impegno. E se di questo volume le saranno certamente grati i numerosi lettori non specialisti, non ne apprezzeranno meno l'utilità gli psicologi e gli storici della medicina. Sotto la sua lente d'ingrandimento emergono via via i veri lineamenti di una famosa "paziente" conosciuta nella letteratura psicoanalitica col nome di Anna O.: Bertha Pappenheim. Un volto riacquista vivezza, viene individuata una personalità ben precisa di cui sino a ora si conoscevano solamente gli scarni elementi della breve storia clinica. Di lei si può dire che è stata la pietra angolare nella formazione delle scoperte e delle teorie di Freud, che tuttavia non l'ha mai conosciuta personalmente: ne aveva solamente sentito parlare, con tutti i particolari del "caso" medico, da un suo collega e amico, Josef Breuer, che l'aveva assistita e curata. Ma Freud ebbe l'immediata intuizione di quello che poteva significare per la psiche umana la rivoluzionaria scoperta di Breuer e lo convinse a collaborare con lui agli Studi sull'isteria, in cui si trova appunto il famoso saggio su Anna O. In base a quelle scoperte, a cui si aggiunsero altre esperienze e conoscenze, Freud delineò una prima ipotesi sui motivi per i quali nelle persone insorgono turbe emotive e sul modo in cui si possono guarire. II metodo usato da Lucy Freeman per esporre questa appassionante materia è pienamente adeguato al caso della celebre paziente: l'Autrice ci conduce direttamente al capezzale delle sue sofferenze e ci presenta il suo medico, Breuer appunto, a quel tempo assai giovane ma affermato e molto ricercato negli ambienti eleganti e colti della capitale austriaca. Seguiamo cosí nel suo divenire la "cura con le parole": le reazioni della ragazza, straordinariamente intelligente e dotata, e i suoi curiosi sintomi isterici che ora sembrano spegnersi, ora riesplodono con violenza, mentre il giovane medico ne viene lentamente catturato. Giorno dopo giorno si reca al letto della malata, fino all'ultima volta quando assiste, impietrito dallo sgomento, all'inatteso sbocco della' cura. E abbandona precipitosamente la sua paziente. Nella seconda parte del libro inaspettatamene il lettore non si trova piú dinanzi una ragazza sofferente, bensí una donna interamente dedita all'impegno in campo sociale, creatrice e direttrice a Francoforte di un centro in cui trovano rifugio le ragazze ebree piú povere istradate alla prostituzione. E qui Lucy Freeman ricostruisce le vicende che costituiscono la vita quotidiana di Bertha Pappenheim fino alla morte. Nella terza parte del libro, infine, l'Autrice prova a spiegare le ragioni per cui la ragazza isterica di un tempo si è trasformata in una filantropica e attiva femminista e sostenitrice di riforme sociali, con un lavoro di scavo che è reso possibile dall'analisi puntuale condotta sui fatti e le testimonianze anche minute di questa esistenza. Ne risulta una biografia affascinante in cui finalmente appare non piú frammentato, nella sua continuità lineare lo storico "caso". E Anna O., la paziente di Breuer e Freud, ritrova tutta la concretezza della sua umanità."
Karl Menninger, M.D.
Il caso clinico di Anna O.
LUCY FREEMAN
LA STORIA DI ANNA O.
(Biografie - Epistolari)
Feltrinelli, Milano, 1979
link al sito: La ragione degli affetti - Saggio
Francesco Giubbolini Studio medico di psicoterapia dinamica, Siena
Recensione del libro
"Lucy Freeman, autrice di numerosi volumi, ha da sempre dedicato al suo interesse principale, la psicoanalisi e la psichiatria, grandissima parte del suo impegno. E se di questo volume le saranno certamente grati i numerosi lettori non specialisti, non ne apprezzeranno meno l'utilità gli psicologi e gli storici della medicina. Sotto la sua lente d'ingrandimento emergono via via i veri lineamenti di una famosa "paziente" conosciuta nella letteratura psicoanalitica col nome di Anna O.: Bertha Pappenheim. Un volto riacquista vivezza, viene individuata una personalità ben precisa di cui sino a ora si conoscevano solamente gli scarni elementi della breve storia clinica. Di lei si può dire che è stata la pietra angolare nella formazione delle scoperte e delle teorie di Freud, che tuttavia non l'ha mai conosciuta personalmente: ne aveva solamente sentito parlare, con tutti i particolari del "caso" medico, da un suo collega e amico, Josef Breuer, che l'aveva assistita e curata. Ma Freud ebbe l'immediata intuizione di quello che poteva significare per la psiche umana la rivoluzionaria scoperta di Breuer e lo convinse a collaborare con lui agli Studi sull'isteria, in cui si trova appunto il famoso saggio su Anna O. In base a quelle scoperte, a cui si aggiunsero altre esperienze e conoscenze, Freud delineò una prima ipotesi sui motivi per i quali nelle persone insorgono turbe emotive e sul modo in cui si possono guarire. II metodo usato da Lucy Freeman per esporre questa appassionante materia è pienamente adeguato al caso della celebre paziente: l'Autrice ci conduce direttamente al capezzale delle sue sofferenze e ci presenta il suo medico, Breuer appunto, a quel tempo assai giovane ma affermato e molto ricercato negli ambienti eleganti e colti della capitale austriaca. Seguiamo cosí nel suo divenire la "cura con le parole": le reazioni della ragazza, straordinariamente intelligente e dotata, e i suoi curiosi sintomi isterici che ora sembrano spegnersi, ora riesplodono con violenza, mentre il giovane medico ne viene lentamente catturato. Giorno dopo giorno si reca al letto della malata, fino all'ultima volta quando assiste, impietrito dallo sgomento, all'inatteso sbocco della' cura. E abbandona precipitosamente la sua paziente. Nella seconda parte del libro inaspettatamene il lettore non si trova piú dinanzi una ragazza sofferente, bensí una donna interamente dedita all'impegno in campo sociale, creatrice e direttrice a Francoforte di un centro in cui trovano rifugio le ragazze ebree piú povere istradate alla prostituzione. E qui Lucy Freeman ricostruisce le vicende che costituiscono la vita quotidiana di Bertha Pappenheim fino alla morte. Nella terza parte del libro, infine, l'Autrice prova a spiegare le ragioni per cui la ragazza isterica di un tempo si è trasformata in una filantropica e attiva femminista e sostenitrice di riforme sociali, con un lavoro di scavo che è reso possibile dall'analisi puntuale condotta sui fatti e le testimonianze anche minute di questa esistenza. Ne risulta una biografia affascinante in cui finalmente appare non piú frammentato, nella sua continuità lineare lo storico "caso". E Anna O., la paziente di Breuer e Freud, ritrova tutta la concretezza della sua umanità."
Karl Menninger, M.D.
Il caso clinico di Anna O.
LUCY FREEMAN
LA STORIA DI ANNA O.
(Biografie - Epistolari)
Feltrinelli, Milano, 1979
link al sito: La ragione degli affetti - Saggio
Francesco Giubbolini Studio medico di psicoterapia dinamica, Siena
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